Posts written by veu

  1. .
    L'ANGELO DEL MIRACOLO

    Nazione: Italia
    Anno: 1945
    Regia: Piero Ballerini
    Soggetto: Alessandro De Stefani, opera
    Sceneggiatura: Alessandro De Stefani, Piero Ballerini, Gianni Granzotto
    Attori: Emilio Baldanello (Andrea), Emma Gramatica (madre di Andrea), Bianca Doria (Luisa), Attilio Dottesio (il capoufficio), Milena Penovich (moglie del capoufficio), Luciano De Ambrosis (Andrea da bambino)
    Colore: Bianco e Nero
    Fotografia: Alberto Fusi
    Musica: Armando La Rosa Parodi
    Scene: Italo Cremona
    Montaggio: Piero Ballerini
    Produzione: Italo-Africana Società Commerciale
    censura: 146 del 04-12-1945

    Trama: Tratto da una fiaba di Hans Christian Andersen. Una madre, accanto al letto del figlioletto Andrea gravemente ammalato, chiede all’immagine dell'Angelo custode di salvarlo. L’angelo le fa vedere in uno specchio il futuro del figlio se sopravviverà: sarà un ladro e un amore per una donna di facili costumi lo spingerà all’omicidio e quindi alla forca. Ciò malgrado, la donna chiede all’angelo di guarire il figlio. E il miracolo avviene. Andrea guarisce. A trent’anni sposa Luisa, una brava ragazza che gli dà un figlio, e trova lavoro come cassiere in una banca. Ma dopo qualche tempo ha una relazione con la moglie separata del suo capo-ufficio: quest’ultimo è intenzionato a rovinare la carriera di Andrea attribuendogli un ammanco dalla cassaforte della banca. Interviene la madre e prima che il figlio uccida il rivale, lo sopprime lei stessa, finisce in prigione e muore prima della conclusione del processo.

    Trama dettagliata: Una mamma mentre assiste il suo bambino grave Lente ammalato, si rivolge all'immagine dell'Angelo Custode, perchè salvi la sua creatura. La preghiera non cessa d'implorare il salvataggio, anche quando la madre può vedere in uno specchio quella che sarà la travagliata vita futura del suo figliolo. Infatti costui, per amore di una facile donna, finirà col rubare e coll'essere condannato a morte per avere ucciso l'amante della donna che, ricattandolo, lo minacciava di denunzia all'Autorità giudiziaria.
    La visione irreale si spegne e la madre saluta il miracolo della guarigione del figlio Andrea.
    Passano molti anni. Ormai Andrea ha raggiunto quasi trent'anni ed esprime alla madre il desiderio di sposarsi. La mamma è trepidante,
    temendo sempre che si possano verificare i fatti previsti nella visione ormai lontana. Perciò acconsente solo quando s'accorge che Luisa è effettivamente una brava ragazza. Il loro matrimonio è allietato dalla nascita di un bimbo. Andrea riesce anche ad entrare cote cassiere in una banca. La trepidazione della madre ora inizia a calmarsi di fronte a questo quadra di ordinaria felicità. Ma un giorno, Andrea conosce casualmente una donna separata dal marito. La relazione intima che si stabilisce tra i due induce la madre a sopprimere il marito geloso che, come capo ufficio di Andrea, aveva palesemente dimostrato di voler rovinare il figlio, fingendolo autore di un grosso ammanco dalla cassaforte.
    Andrea è mondo da ogni colpa di sangue, ma la madre che ha ucciso per evitare che il figlio possa sopprimere con le sue mani l'equivoco rivale, non resiste allo strazio del processo e muore mentre sta per essere pronunciata la condanna contro di lei.



    Trama dettagliata con ulteriori elementi: Una madre prega fervorosamente l'Angelo Custode perché salvi il suo bambino, che, gravemente ammalato, è destinato a morire. L'Angelo per convincerla a desistere dalla sua preghiera, le fa vedere quale sarebbe l'avvenire del fanciullo se dovesse rimanere in vita.
    Ma per quanto in tale avvenire si veda una travagliatissima e triste esistenza che ci concluderà con l'adulterio, il furto e l'assassinio, la madre vuole che la sua creatura rimanga egualmente in vita. Il tempo trascorre nella continua, ansiosa trepidazione della ladre che vive nel timore che la vita dei figlio si debba svolgere secondo la visione avuta.
    Andrea, il figlio, a 30 anni, sposa una orava ed onesta ragazza. Sembra che ogni pericolo di perdizione sia per lui scongiurato.
    Invece, sebbene in condizioni diverse di luogo e di ambiente, egli conosce la donna della visione materna. Se ne innamora, ne diventa l'amante e dà cosi inizio alla fosca tragedia tanta paventata dalla madre. Il marito dell'adultera è infatti il capo ufficio della banca in cui il giovane lavora come cassiere. Per vendicarsi dell'offesa fatta al suo onore, egli accusa di furto il suo dipendente. Ma la madre, che ha tutto intuito, per salvare il figlio dal destino cui è condannato, uccide l'accusatore. Essa viene arrestata e, durante il processo, non resistendo allo strazio del suo animo, colta da sincope, muore. La sua anima, staccatasi dal corpo, viene condotta dall'Angelo in cielo.



    Note:

    * Produzione veneziana. La pellicola è girata presso i Giardini della Biennale da Piero Ballerini. Il soggetto di Alessandro De Stefani è tratto da una fiaba di Hans Christian Andersen (L'Inviato), ridotto in dramma dallo stesso soggettista e rappresentato il 26 settembre 1944 presso il Teatro Goldoni di Venezia (Anon., "Ribalte e schermi"). Alla sceneggiatura Gianni Granzotto affianca regista e soggettista, alla fotografia Alberto Fusi, scenografie di Italo Cremona e le musiche di Armando La Rosa Parodi (Freddi). La produzione è annunciata da Giorgio Venturini nell'agosto 1944 su "Film", ma la lavorazione - in un primo tempo affidata a Gian Maria Cominetti con la presenza in scena di Osvaldo Valenti e Salvo Randone in seguito non confermati (Ghigi 1983) - pare essere iniziata nel dicembre 1944 (Chiti-Lancia). Alcune fonti collocano erroneamente la produzione presso gli stabilimenti torinesi della Sidera Film (Gerosa), il dato è smentito anche dal documento prodotto dalla commissione di revisione che conferma la sede del Cinevillaggio (cfr. "Fascicolo di revisione n. 146" in "Edizione 1945" sez. "Documenti"). Non risulta alcuna revisione in epoca RSI poiché il film è ultimato dopo la Liberazione come dimostra una "scrittura privata" datata 19 aprile 1945 tra il sig. Francesco Camilotti di Padova che versa 600.000 lire in favore della Vittoria Film, Casa di produzione che aveva già ottenuto, nell'ottobre 1944, un finanziamento di due milioni da parte della Sezione autonoma per il Credito Cinematografico della Banca Nazionale del Lavoro, così come molti altre produzioni di Salò (documento conservato presso ACS - Fondo del Ministero del Tesoro - Enti disciolti: ENAIPE). La collaborazione di Francesco Pasinetti riportata da alcune fonti (Chiti-Lancia) non è accreditata. La ragione sociale "Vittoria Film" è confermata nei documenti ufficiali, ciononostante è legata alla produttrice Mariangela Nuvoletti, la medesima che finanzia "Aeroporto" (cfr.) nei cui titoli di testa però troviamo la lezione "Victoria Film". Purtroppo non si possono verificare eventuali discrepanze direttamente sull'edizione, perché "L'angelo del miracolo" risulta disperso. Secondo Laura (1986) nel cast è presente anche Franco Castellani, ma non abbiamo trovato ulteriore riscontro nei documenti d'archivio e né nei repertori.

    * La pellicola venne girata negli stabilimenti veneziani del Cinevillaggio, centro di produzione cinematografica dell'Italia repubblichina, sorto in alternativa a Cinecittà, all'epoca abbandonata a causa della guerra in corso.
    Girato tra il dicembre del 1944 e il febbraio del 1945 ebbe parecchie difficoltà produttive e distributive, a causa dei drammatici eventi bellici che stavano sconvolgendo l'Italia in quel periodo.

    * In principio l'attore protagonista doveva essere Memo Benassi, il quale si ammalò e dovette essere sostituito con un altro attore, dal nome ignoto, il quale pochi giorni dopo la ripresa della lavorazione morì di paralisi. In seguito il ruolo di Andrea venne affidato a Emilio Baldanello, che ebbe anche lui una paralisi e venne ricoverato in ospedale.

    * Il film circolò brevemente nella primavera del 1945 nelle sole località centro-settentrionali facenti parte della Repubblica di Salò, poco prima della fine della guerra e della caduta del fascismo.
    A oggi non risulta presente nei cataloghi dell'E.N.I.C. (l'ente pubblico che distribuì tutti i film prodotti durante la RSI) ed è dunque da considerarsi perduto.

    * Come quasi tutti i film prodotti durante il Cinevillaggio, anche L'angelo del miracolo passò completamente inosservato sia dal pubblico sia dalla critica.


    Link sul sito della censura:

    Click
  2. .
    Tra i due Robin Hood Principe dei Ladri ha una qualità tecnica molto più alta rispetto a Robin Hood La Leggenda.
    La leggendaria storia del principe dei ladri che ruba ai ricchi per dare ai poveri è una delle storie con maggiori adattamenti cinematografici.
    Tra le versioni migliori c'è pure Robin Hood e i compagni della foresta, molto ben fatto.
    Le Rocambolesche Avventure di Robin Hood contro l'odioso sceriffo erano replicate tantissimo sulle tv locali, dopo una prima trasmissione su Italia 1... erano una parodia però era divertente... Mai visto Robin Hood un uomo in calzamaglia...
    la versione di Paperissima era molto divertente (pochi anni dopo fecero Aladino perchè vi era la moda di Aladdin)
  3. .
    Da Le Favole di Lang:

    La principessa che era nascosta sottoterra

    C’era una volta un re che aveva grandi ricchezze che, alla sua morte, divise fra i tre figli. I due maggiori vivevano fra stravizi e banchetti e di conseguenza sprecarono e dissiparono l’eredità del padre finché non rimase loro più nulla e si trovarono nel bisogno e in miseria. Il più giovane dei tre figli, al contrario, fece buon uso della propria parte. Prese moglie e ben presto ebbe una bellissima figlia per la quale, quando fu cresciuta, volle che fosse costruito un grande palazzo sottoterra e poi uccise l’architetto che l’aveva edificato. Poi vi chiuse dentro la figlia e mandò araldi in tutto il mondo a render noto che chiunque avesse trovato la figlia del re, l’avrebbe avuta in moglie. Se non fosse stato capace di trovarla, allora sarebbe morto.

    Molti giovani uomini cercarono di scoprirla, ma morirono tutti nel tentativo.

    Così dopo che molti ebbero incontrato la morte, venne un ragazzo, bellissimo a vedersi, e tanto intelligente quanto era bello, il quale aveva un gran desiderio di tentare l’impresa. Per prima cosa andò da un pastore e lo pregò di nasconderlo sotto una pelle di pecora, che aveva un vello dorato, e di condurlo dal re camuffato così. Il pastore si lasciò convincere a farlo, prese una pelle che aveva il vello dorato, vi cuci dentro il ragazzo, mettendoci anche da mangiare e da bere, e così lo condusse davanti al re.

    Quando il re vide l’agnello dorato, chiese al pastore: “Mi venderesti questo agnello?”

    Il pastore però rispose: “No, o mio re, non lo venderò; ma se vi piace, sono disposto a farvi una cortesia, ve lo presterò per tre giorni senza nulla in cambio, dopodiché dovrete restituirmelo.”

    Il re acconsentì, si alzò e portò l’agnello alla figlia. Quando l’ebbe condotto nel suo palazzo, attraverso molte stanze, giunse a una porta chiusa. Allora disse: “Apriti, Sartara Martara della terra!” e la porta si aprì da sola. Dopodiché attraversarono ancora molte altre stanze e giunsero a un’altra porta chiusa. Di nuovo il re disse: “Apriti Sartara Martara della terra!” e questa porta si aprì come l’altra, così giunsero nell’appartamento in cui abitava la principessa e in cui il pavimento, i muri e il tetto erano tutti d’argento.

    Quando il re ebbe abbracciato la principessa, le diede l’agnello, con sua grande gioia. Lo lisciò, lo accarezzò e gioco con esso.

    Dopo un po’ l’agnello si liberò al che, vedendolo, la principessa disse: “Guarda, padre, l’agnello è libero.”

    Il re rispose: “È solo un agnello, perché non dovrebbe essere libero?”

    Poi lasciò l’agnello con la principessa e se ne andò.

    La notte il ragazzo si tolse la pelle. Quando la principessa vide com’era bello, s’innamorò di lui e chiese: “Perché sei venuto qui così camuffato dentro una pelle d’agnello?”

    allora il ragazzo rispose: “Quando ho visto molte persone cercarti e non trovarti e perdere le loro vite nel tentativo, ho ideato questo trucco e così sono arrivato da te sano e salvo.”

    la principessa esclamò: “Hai fatto bene a far così, ma devi sapere che la tua scommessa non è ancora vinta perché mio padre trasformerà me e le mie damigelle in anatre e ti chiederà ‘Quale di queste anatre è la principessa?’ allora io volgerò indietro la testa e con il becco mi pulirò le ali, così potrai riconoscermi.”

    Quando ebbero trascorso insieme i tre giorni, chiacchierando e accarezzandosi l’un l’altra, il pastore tornò dal re e chiese l’agnello. Allora il re andò dalla figlia per portarlo via, cosa che addolorò molto la principessa perché, disse, avevano giocato insieme così piacevolmente.

    Ma il re disse: “Non posso lasciarlo con te, figlia mia, perché me lo hanno solo prestato.” così lo portò via con sé e lo restituì al pastore.

    Allora il ragazzo gettò via la pelle e andò dal re, dicendo: “Sire, sono convinto di poter trovare vostra figlia.”

    Quando il re vide quanto fosse bello, disse: “Ragazzo mio, ho pietà della tua giovinezza. L’impresa è già costata la vita a molti e certamente anche tu morirai.”

    Ma il ragazzo rispose: “Accetto le vostre condizioni, maestà; o la troverò o perderò la testa.”

    A quel punto andò davanti al re, che lo seguì finché raggiunsero la grande porta. Allora il ragazzo disse al re: “Pronunciate le parole che possano aprirla.”

    E il re rispose: “Quali sono le parole? Potrei dire qualcosa come: ‘Chiuso, chiuso, chiuso’?”

    Il ragazzo disse: “No, dite ‘Apriti, Sartara Martara della terra’.”

    Quando il re l’ebbe detto, la porta si aprì da sola e loro entrarono, mentre il re si mordicchiava i baffi per la collera. Poi giunsero alla seconda porta, dove accade la medesima cosa come prima ed entrarono e trovarono la principessa.

    Allora il re parlò e disse: “Sì, è vero, hai trovato la principessa. Adesso tramuterò in anatre lei e le sue damigelle e se tu indovinerai quale di queste anatre sia mia figlia, allora l’avrai in moglie.”

    Immediatamente il re trasformò tutte le ragazze in anatre e le condusse davanti al ragazzo, dicendo: “Adesso mostrami quale sia mia figlia.”

    Allora principessa, secondo il loro accordo, cominciò a pulirsi le ali con il becco e il ragazzo disse: “Quella che si pulisce le ali è la principessa.”

    Il re non poté fare altro che concederla in sposa al ragazzo e i due vissero insieme felici e contenti.



    Note:

    * La fiaba è di origine tedesca.

    * La fiaba è contenuta nella raccolta di fiabe di Andrew Lang, precisamente nel Libro Viola ed è la fiaba n. 30.
  4. .
    Statua della Sirenetta dal nome "Forma Sirena" a Imperia, Liguria, Italia.

    Da Riviera 24:

    Passeggiata nel mare
    Imperia, sul molo lungo di Oneglia arriva la Sirenetta della Sossi

    Si tratta di una statua interamente in bronzo, alta 2 metri e mezzo. Inaugurazione nei prossimi giorni
    Diego David
    di Diego David
    06 Luglio 2021 15:26


    Imperia. E’ apparsa sul molo di Oneglia “Forma Sirena” la statua della Sirenetta: l’opera realizzata su progetto dell’artista imperiese Serenella Sossi rimarrà avvolta nell’imballaggio di cellophane fino all’inaugurazione prevista nei prossimi giorni esauriti gli impegni romani del sindaco Claudio Scajola come vicepresidente di Anci.

    La statua della Sirenetta è stata finanziata interamente da un contributo della Fondazione Carige.

    «L’opera – dice il sindaco Claudio Scajola – richiama il forte legame tra Imperia e il mare e, al contempo, lo spirito di rinascita dopo le avversità della mareggiata dell’ottobre 2018, dalle quali il molo Lungo è rinato ancora più bello, diventando la Passeggiata nel Mare».

    Si tratta di una statua interamente in bronzo, alta all’incirca 2 metri e mezzo, posta su un basamento circolare alla testa della parte antica del molo di Oneglia, è stato inserito un punto di osservazione panoramico.


    Video:




    Foto:

  5. .
    Da Le Favole di Lang:

    Mogarzea e suo figlio

    C’era una volta un ragazzo i cui padre e madre, alla loro morte, avevano affidato a un tutore. Però il tutore che avevano scelto si rivelò essere un uomo malvagio che spese tutto il denaro, così il ragazzo decise di andarsene e di trovare da solo la propria strada.

    Così un giorno partì e camminò, camminò per boschi e prati finché quando scese la sera fu molto stanco e non sapeva dove dormire. Si arrampicò su una collina e si guardò attorno per vedere se da una finestra brillasse una luce. Prima tutto gli sembrò buio, ma alla fine si accorse di un lumicino lontano lontano e, risollevandosi di morale, ne andò subito in cerca.

    La notte era quasi trascorsa a metà prima che potesse raggiungere la luce, che si rivelò essere un gran fuoco presso il quale stava dormendo un uomo così alto che sarebbe potuto essere un gigante. Il ragazzo esitò per un istante su ciò che dovesse fare poi scivolò vicino all’uomo e si sdraiò vicino alle sue gambe.

    Quando l’uomo la mattina si svegliò, fu molto sorpreso di scoprire il ragazzo vicino a sé.

    “Povero me! Da dove vieni?” chiese.

    “Sono tuo figlio e sono nato stanotte.” rispose il ragazzo.

    L’uomo rispose: “Se è vero, dovrai prenderti cura delle mie pecore. Bada bene che non attraversino mai il confine della mia terra o te ne pentirai.” poi gli indicò dove fosse il confine della sua terra e disse al ragazzo di cominciare subito il lavoro.

    Il giovane pastore condusse le pecore nei pascoli più rigogliosi e stette con esse fino a sera quando le riportò indietro e aiutò l’uomo a mungerle. Fatto ciò, sedettero entrambi a cena e mentre stavano mangiando, il ragazzo chiese al grande uomo: “Come ti chiami, padre?”

    “Mogarzea.” rispose l’uomo.

    “Mi meraviglia che tu non ti sia stancato di vivere per conto tuo in questo luogo solitario.”

    “Non c’è ragione che ti meravigli! Non sai che non c’è mai stato un orso che abbia ballato di propria spontanea volontà?”

    Il ragazzo rispose: “Sì, è vero, ma perché sei sempre così triste? Raccontami la tua storia, padre.”

    “A che serve che io racconti cose che potrebbero solo rattristare anche te?”

    “Non ti preoccupare! Mi piacerebbe sentire. Sei mio padre e non sono forse tuo figlio?”

    “Ebbene, se davvero vuoi conoscere la mia storia, eccola qui. Come ti ho detto, mi chiamo Mogarzea e mio padre è un imperatore. Ero diretto al lago di Latte dolce, che si trova poco lontano da qui, per sposare una delle tre fate che hanno preso dimora in quel lago. Lungo la strada tre malvagi elfi si sono gettati su di me e mi hanno rubato l’anima, così da allora devo stare in questo posto a sorvegliare le pecore senza desiderare nulla di diverso, senza provare neppure un momento di gioia e senza neppure essere capace di ridere. E quegli orribili elfi sono così cattivi che se qualcuno mette un piede nella loro terra, lo puniscono immediatamente. Per questo ti ho avvertito di stare attento affinché tu non condivida il mio destino.”

    “D’accordo, starò molto attento. Lasciami fare, padre.” disse il ragazzo, mentre si stendevano per dormire.

    All’alba il ragazzo si alzò e condusse le pecore al pascolo e per varie ragioni non fu tentato di attraversare i prati erbosi che appartenevano agli elfi, ma lasciò pascolare il gregge con ciò che poterono trovare sul terreno arido di Mogarzea.

    Il terzo giorno era seduto all’ombra di un albero, suonando il flauto – e non vi era nessuno al mondo che sapesse suonarlo meglio – quando una delle pecore si allontanò attraverso il recinto nei prati fioriti degli elfi e un’altra la seguì, e un’altra ancora. Però il ragazzo era così impegnato con il flauto che non si accorse di nulla finché metà del gregge fu dall’altra parte.

    Balzò in piedi, suonando ancora il flauto, e andò dietro alle pecore, cercando di ricondurle dalla propria parte del confine, quando improvvisamente vide davanti a sé tre splendide ragazze che gli si fermarono di fronte e cominciarono a danzare. Il ragazzo comprese chi dovessero essere e suonò con tutte le proprie forze, ma le ragazze danzarono fino a sera.

    Alla fine gridò: “Adesso lasciatemi andare perché il povero Mogarzea starà morendo di fame. Domani verrò e suonerò per voi.”

    “Va bene, puoi andare,” gli dissero “ma ricordati che, se infrangerai la tua promessa, non ci sfuggirai.”

    Così si accordarono che il giorno seguente sarebbe venuto lì con le pecore e avrebbe suonato per loro fino al calare del sole. Stabilito ciò, ciascuno tornò a casa.

    Mogarzea fu sorpreso di constatare che le pecore gli dessero molto più latte del solito, ma siccome il ragazzo affermava di non aver attraversato il confine, il grande uomo non se ne preoccupò più di tanto e mangiò volentieri la cena.

    Quando si levarono i primi raggi di sole, il ragazzo andò con il gregge nel prato degli elfi e alle prime note del flauto davanti a lui comparvero le ragazze e danzarono, danzarono, danzarono fino a che venne la sera. Allora il ragazzo si lasciò scivolare dalle dita il flauto e lo calpestò come per sbaglio.

    Se aveste potuto sentire il chiasso che fece, e come si torcesse le mani e piangesse e gridasse di aver perso l’unico compagno, avreste provato dispiacere per lui. Il cuore delle ragazze elfo ne fu intenerito e fecero di tutto per consolarlo.

    “Non troverò mai un altro flauto come questo,” gemette il ragazzo “non ne ho mai sentito uno che avesse un tono dolce come il mio! È stato intagliato dal cuore di un ciliegio di sette anni!”

    “Nel nostro giardino c’è proprio un ciliegio di sette anni.” dissero le ragazze “Vieni con noi e potrai farti da solo un altro flauto.”

    Così andarono presso il ciliegio e quando furono intorno a esso, il ragazzo spiegò che se avessero cercato di abbattere l’albero con un ascia, lui avrebbe potuto facilmente spaccare cuore dell’albero, che gli era necessario per il flauto. Per evitare ciò, avrebbe fatto un piccolo taglio nella corteccia, largo abbastanza perché loro potessero infilarvi le dita, e con questo aiuto sarebbe riuscito a dividere in due l’albero così che il cuore non corresse il rischio di essere danneggiato. Le ragazze elfo fecero ciò che aveva detto senza pensarvi, poi lui rapidamente tirò fuori l’ascia, che era infissa nella fenditura e, guarda un po’! le loro dita rimasero imprigionate nell’albero.

    Invano strillarono di dolore e tentarono di liberarsi. Non potevano fare nulla e il ragazzo rimase insensibile come il marmo alle loro suppliche.

    Allora chiese loro l’anima di Mogarzea.

    “Sì, dobbiamo averla noi, è in una bottiglia sul davanzale della finestra.” dissero, sperando così di ottenere subito la libertà, ma si sbagliavano.

    “Avete fatto soffrire così tanti uomini,” rispose severamente il ragazzo “che anche voi adesso dovete soffrire, ma domani vi lascerò andare.” e tornò verso casa, portando con sé le pecore l’anima di Mogarzea.

    Mogarzea stava aspettando sulla porta e come il ragazzo fu vicino, cominciò a rimproverarlo per il ritardo, ma alla prima parola di spiegazione, l’uomo fu quasi fuori di sé per la gioia e fece un tale balzo in aria che la falsa anima che gli elfi gli avevano dato gli uscì dalla bocca e la sua, che era stata rinchiusa forza nella bottiglia d’acqua, riprese il proprio posto.

    Quando l’eccitazione si fu placata, gridò al ragazzo: “Non mi importa se tu sia davvero mio figlio; dimmi, come potrò ripagarti per ciò che hai fatto per me?”

    “Mostrandomi dove sia il lago di Latte Dolce e come io possa avere in moglie una delle tre fate che vivono là e che mi permetta di essere tuo figlio per sempre.”

    Mogarzea e il figlio trascorsero la notte cantando e banchettando perché entrambi erano troppo felici per dormire e quando si fece giorno, uscirono insieme per liberare le ragazze elfo dall’albero. Quando raggiunsero il luogo della loro prigionia, Mogarzea prese sulle spalle l’albero con tutte le ragazze e lo portò nel regno di suo padre dove tutti furono contenti di rivederlo a casa. Ma tutto ciò che lui fece fu sottolineare che il ragazzo lo aveva salvato e lo aveva seguito con il gregge.

    Il ragazzo rimase a palazzo per quattro giorni, ricevendo i ringraziamenti e gli elogi di tutta la corte, poi disse a Mogarzea:

    “Per me è giunto il tempo di andare via da qui, ma dimmi, ti prego, come io possa trovare il lago di Latte Dolce e io tornerò e porterò con me mia moglie.”

    Mogarzea tentò invano di farlo restare ma, vedendo che era inutile, gli disse tutto ciò che sapeva perché lui stesso non aveva mai veduto il lago.

    Per tre giorni d’estate il ragazzo viaggiò con il suo flauto finché una sera raggiunse il lago che si trovava nel regno di una potente fata. Il mattino seguente era appena l’alba quando il ragazzo scese sulla spiaggia e cominciò a suonare il flauto; le prime note si erano a malapena diffuse nell’aria quando vide una bellissima fata davanti a sé con i capelli e l’abito che scintillavano come l’oro. La fissò sbalordito quando improvvisamente cominciò a danzare. I suoi movimenti erano così aggraziati che dimenticò di suonare e, appena le note del suo flauto cessarono, lei svanì alla sua vista. Il giorno seguente accade la medesima cosa, ma il terzo giorno si fece coraggio e si avvicinò un po’ di più, suonando nel frattempo il flauto. Improvvisamente si slanciò avanti, la prese tra le braccia e la baciò poi le tolse una rosa dai capelli.

    La fata lanciò un grido e lo pregò di restituirle la rosa, ma lui non voleva. Si mise solo la rosa sul cappello e rimase sordo a tutte le sue preghiere.

    Alla fine la fata vide che tutte le suppliche erano vane e accettò di sposare il ragazzo, come lui desiderava. Andarono insieme a palazzo, dove Mogarzea lo stava ancora aspettando, e le nozze furono celebrate dall’imperatore in persona. Ma ogni volta in cui era maggio, tornavano al lago di Latte Dolce, loro con i bambini, e si bagnavano nelle sue acque.



    Note:

    * La fiaba è di origine rumena.

    * La fiaba è contenuta nella raccolta di fiabe di Andrew Lang, precisamente nel Libro Viola ed è la fiaba n. 35.


    * Illustrazioni:

  6. .
    Non si capisce il motivo, è una statua che rende omaggio alla Madonna, e ci sono devoti, quindi non si capiscono le polemiche.

    Qui La Petite Sirène di Saint Pierre (Saint Pierre, L'isola della Riunione o Riunione)

    Da Randpitons:

    Petite sirène

    On ne compte plus les statues de sirènes à travers le monde où on les voit, la queue trainant dans les vagues. Les plus connues se situent à Copenhague, Songkhia ou Daydream Island mais la Réunion a du mal à conserver la sienne. A la Réunion, peut-être plus qu'ailleurs, les légendes sont tenaces et beaucoup ont vu des sirènes dans le port de Saint-Pierre au 19ème siècle. Des études font état de dugongs qui, observés de loin, ont vite fait de transporter l'imagination vers ces jeunes filles dénudées à la queue de poisson. Une première statue, qui tournait le dos à la mer fut très vite décapitée. Une autre installée en 2005 en remplacement a déjà subi des avaries volontaires (voir visage de la photo). Attention aux superstitions qui, hélas, amèneront cette statue à subir d'autres outrages dans les années à venir.

    Pour s'y rendre

    A Saint-Pierre, en venant du port et en roulant sur le Boulevard Hubert Delisle, gagner le rond-pont près du cimetière. En faire le tour et repérer la petite rue en face nommée le Petit Boulevard. La statue se situe à son tout début.


  7. .
    Da Le Favole di Lang:

    I tre principi e i loro animali

    C’erano una volta tre principi che avevano una sorellastra. Un giorno andarono tutti insieme a caccia. Quando ebbero percorso un po’ di strada attraverso una fitta foresta raggiunsero un grosso lupo grigio con tre cuccioli. Proprio mentre stavano per sparare, il lupo parlò e disse: “Non sparatemi e io darò a ciascuno di voi uno dei miei cuccioli. Saranno vostri fedeli amici.”

    Così i principi proseguirono per la loro strada e un lupacchiotto seguiva ciascuno di loro.

    Poco dopo incontrarono una leonessa con tre cuccioli. Anche lei li pregò di non spararle e avrebbe dato un cucciolo a ciascuno di loro. E così fu con una volpe, una lepre, un cinghiale e un orso, finché ogni principe ebbe un seguito di cuccioli che avanzano dietro di lui con passo felpato.

    Verso sera giunsero in una radura della foresta in cui tre betulle crescevano all’incrocio di tre strade. Il maggiore dei tre principi incoccò una freccia e la scagliò sul tronco di una delle tre betulle. Rivolgendosi ai fratelli, disse:

    ”Che ognuno di noi contrassegni uno di questi tre alberi prima di dividerci su strade diverse. Quando uno di noi ritornerà in questo posto, deve girare attorno agli alberi degli altri due; se vedrà sgorgare sangue dal segno sull’albero vorrà dire che quel fratello sarà morto, se vedrà del latte, saprà che suo fratello è vivo.”

    Così ognuno dei principi fece ciò che aveva detto il fratello maggiore e quando le tre betulle furono contrassegnate dalle loro frecce, si rivolsero alla sorellastra e le chiesero con chi di loro volesse stare.

    Rispose: “Con il maggiore.” Allora i fratelli si separarono l’uno dall’altro e ciascuno di loro prese una strada diversa, seguito dai propri animali. La sorellastra se ne andò con il principe primogenito.

    Dopo che ebbero camminato per un po’ lungo la strada, entrarono in una foresta e in una delle più ampie radure improvvisamente si trovarono di fronte a un castello nel quale viveva una banda di ladri. Il principe andò alla porta e bussò. Appena gli fu aperto, gli animali si slanciarono avanti e ognuno di essi afferrò un ladro, lo uccise e ne trascinò il corpo nel sotterraneo. Però uno dei ladri non fu ucciso, solo ferito gravemente, ma giacque immobile fingendo di essere morto come gli altri. Allora il principe e la sorellastra entrarono nel castello e vi si stabilirono.

    Il mattino seguente il principe andò a caccia. Prima di partire disse alla sorellastra che sarebbe potuta entrare in ogni stanza della casa tranne che nel sotterraneo in cui si trovavano i ladri uccisi. Appena le ebbe girato le spalle, però, lei dimenticò ciò che le aveva detto e dopo aver gironzolato per tutte le stanze, scese nel sotterraneo e aprì la porta. Gettò appena un’occhiata al ladro che aveva finto di essere morto e questi si mise a sedere e le disse:

    ”Non aver paura. Fai ciò che ti dico e sarò tuo amico. Se mi sposerai, sarai molto più felice con me che con tuo fratello. Però prima devi andare nel soggiorno e cercare la credenza. Lì troverai tre bottiglie. In una c’è un unguento curativo che devi spalmarmi sul mento per curare la ferita; poi, se berrò il contenuto della seconda bottiglia, starò bene e infine la terza bottiglia mi renderà più forte di quanto io sia mai stato. Poi, quando tuo fratello tornerà dalla foresta con i suoi animali, tu dovrai andare da lui e dirgli: ‘Fratello, sei molto forte. Se i ti legassi i pollici dietro le spalle con una corda di robusta seta, riusciresti a liberarti?’ e quando vedrai che non riesce a farlo, dovrai chiamarmi.

    Quando il fratello tornò a casa, la sorellastra fece come il ladro le aveva detto e legò i pollici del fratello dietro le spalle. Con uno strattone si liberò e le disse: “Sorella, questa fune non è abbastanza robusta per me.”

    Il giorno seguente egli tornò nel bosco con i suoi animali e il ladro disse alla sorellastra che doveva procurarsi una corda più robusta con cui legargli i pollici. Ma di nuovo il principe si liberò, non così facilmente come la prima volta, e disse alla sorella:

    ”Anche questa corda non è abbastanza robusta.”

    Il terzo giorno, al ritorno dalla foresta, acconsentì a lasciar saggiare la sua forza per l’ultima volta. Così la sorellastra prese una cordai assai robusta, che aveva preparato su suggerimento del ladro, e stavolta, malgrado il principe tirasse strattonasse con tutte le proprie forze, non riuscì a spezzare la corda. Così chiamò la sorella e le disse: ‘Stavolta la corda è così robusta che non posso spezzarla. Vieni qui e scioglila per me.’

    Invece di venire, la sorella chiamò il ladro, che si precipitò nella stanza brandendo il coltello con il quale si preparava ad attaccare il principe.

    Ma il principe parlò e disse:

    ”Abbi pazienza un minuto. Prima di morire, mi piacerebbe soffiare tre volte nel mio corno da caccia – una volta in questa stanza, una volta sulle scale e una volta in cortile.’

    Il ladro acconsentì e il principe suonò il corno. Al primo squillo, si svegliò la volpe che stava dormendo in una gabbia in cortile e comprese che il suo padrone aveva bisogno d’aiuto. Così svegliò il lupo colpendolo leggermente sugli occhi con la coda. Poi svegliarono il leone, che balzò sulla porta della gabbia con forza e vigore tanto che andò in pezzi sul terreno e gli animali furono liberi. Precipitandosi nel cortile in aiuto del loro padrone, la volpe rosicchiò in due pezzi la corda che legava i pollici del principe dietro le spalle e il leone si slanciò sul ladro; dopo che lo ebbe ucciso e fatto a pezzi, ciascuno degli animali portò via un osso.

    Allora il principe si rivolse alla sorellastra e disse:

    ”Non ti ucciderò, ma ti lascerò qui in preda al rimorso.” E la incatenò al muro, ponendo una grande ciotola davanti a lei e dicendole: “Non ci rivedremo finché non avrai riempito di lacrime questa ciotola.”

    Così dicendo, il principe chiamò suoi animali si dedicò di nuovo ai suoi viaggi. Dopo aver percorso un po’ di strada, giunse a una locanda. Lì ognuno sembrava così triste che chiese che cosa fosse accaduto.

    Gli risposero: “Ah, oggi la figlia del re sta per morire. È stata consegnata a uno spaventoso drago con nove teste.”

    Allora il principe disse: “Perché dovrebbe morire? Sono assai forte, la salverò.”

    E andò in riva al mare dove il drago doveva incontrare la principessa. Mentre stava spettando con i suoi animali, giunse un lungo corteo che accompagnava la sfortunata principessa: quando giunsero alla spiaggia, la lasciarono lì e tutti tornarono alle loro case. Ma il principe rimase e ben presto vide in lontananza un movimento nell’acqua. Facendosi più vicino, capì che cosa fosse, un drago a nove teste stava arrivando rasentando velocemente l’acqua. Allora il principe si consultò con i suoi animali e appena il drago si avvicinò alla spiaggia, la volpe passò la coda sul mare e accecò il dragò schizzandogli negli occhi acqua salata, mentre l’orso e il le one sollevarono ancora più acqua con le zampe cosicché il mostro rimase confuso senza più vedere niente. A quel punto il principe balzò avanti con la spada e uccise il drago, poi i suoi animali ne fecero a pezzi il corpo.

    La principessa si rivolse al principe e lo ringraziò per averla liberata dal drago, dicendogli:

    ”Sali con me su questa carrozza e torneremo al palazzo di mio padre.” Poi gli diede un anello e metà del proprio fazzoletto. Ma sulla strada del ritorno il cocchiere e il valletto, parlando l’uno con l’altro, dissero:

    ”Per quale motivo dobbiamo condurre al palazzo questo straniero? Uccidiamolo e potremo dire al re che abbiamo ucciso il drago e salvato la principessa, così uno di noi potrà sposarla.”

    Così uccisero il principe e lo lasciarono morto sulla strada. I fedeli animali gironzolarono intorno al cadavere e piansero, poi si chiesero che cosa avrebbero fatto.

    All’improvviso il lupo ebbe un’idea, attraversò il bosco dove trovò un bue, che uccise senza esitazione. Allora chiamò la volpe e le disse di fare la guardia vicino al bue morto e se fosse passato di lì un uccello e avesse tentato di piluccare la carne, doveva catturarlo e portarlo al leone. Poco dopo arrivò un corvo e cominciò a beccare il bue morto. In un attimo la volpe lo acchiappò e lo portò al leone. Allora il leone disse al corvo:

    ”Non ti uccideremo se ci prometterai di volare nella città in cui ci sono tre sorgenti miracolose e ci riporterai l’acqua con il becco per resuscitare un morto.”

    Il corvo volò via e riempì il becco alla sorgente della guarigione, della forza e della sveltezza, volò dal principe morto e lasciò cadere dal becco l’acqua sulle sue labbra; il principe guarì e poté alzarsi e camminare.

    Allora si diresse verso la città, accompagnato dai fedeli animali.

    Quando raggiunsero il palazzo del re scoprirono che erano in corso i preparativi per una grande festa perché la principessa stava per sposare il cocchiere.

    Allora il principe entrò nel palazzo, andò difilato dal cocchiere e gli disse: “ Quale pegno hai ricevuto per aver ucciso il drago e conquistato la mano della principessa? Io ho qui i suoi pegni – questo anello e metà del suo fazzoletto.”

    Quando il re vide i pegni, comprese che il principe stava dicendo la verità. Così il cocchiere fu messo in catene e gettato in prigione, e il principe fu unito in matrimonio alla principessa e ricompensato con metà del regno.

    Un giorno, poco dopo il suo matrimonio, il principe stava attraversando la foresta di sera, seguito dai suoi fedeli animali. Si era fatto buio e aveva smarrito la strada, così vagava tra gli alberi in cerca del sentiero che lo avrebbe ricondotto al palazzo. Mentre camminava, vide la luce di un fuoco e, seguendo quella via, incontrò una vecchia che raccoglieva ramoscelli e foglie secche e li bruciava in una radura della foresta.

    Siccome era molto stanco e la notte assai buia, il principe decise di non andare oltre. Così chiese alla vecchia di poter trascorrere la notte accanto al fuoco.

    ”Certo che puoi,” gli rispose. “Ma io ho paura dei tuoi animali. Lascia che li tocchi con la mia bacchetta e non li temerò più.”

    ”Benissimo,” disse il principe, “non mi dispiace.” La vecchia allungò la bacchetta e toccò gli animali, che in un attimo furono tramutati in pietra e così anche il principe.

    Poco dopo il fratello minore del principe giunse all’incrocio con le tre betulle presso il quale si erano separati quando erano partiti per le loro peregrinazioni. Ricordando che cosa avevano concordato di fare, girò attorno ai tre alberi e quando vide il sangue stillare dall’incisione che il maggiore dei suoi fratelli aveva fatto, comprese che era morto. Così, seguito dai suoi animali, decise di andare nella città sulla quale regnava il fratello e dove viveva la principessa che aveva sposato. Quando giunse in città, tutta la popolazione era molto addolorata perché il principe era scomparso.

    Ma quando videro il fratello minore e gli animali che lo seguivano, credettero che fosse il loro principe, se ne rallegrarono assai e gli dissero quanto lo avessero cercato dappertutto. Poi lo condussero dal re e anche lui pensò che fosse suo genero. Ma la principessa sapeva che non era suo marito e lo pregò di andare nella foresta con i suoi animali e di cercare il fratello finché lo avesse ritrovato.

    Così il più giovane dei principi andò in cerca del fratello e anche lui smarrì la strada nella foresta e fu sorpreso dalla notte. Poi giunse a una radura tra gli alberi in cui ardeva un fuoco e presso il quale una vecchia radunava ramoscelli e foglie secche tra le fiamme. Le chiese se potesse passare la notte accanto al fuoco visto che era troppo tardi e troppo buio per tornare in città.

    Lei rispose. “Certo che puoi, ma ho paura dei tuoi animali. Lascia che li tocchi con la mia bacchetta così avrò più paura di loro.”

    Lui disse che lo poteva fare perché non sapeva che fosse una strega. Così lei tese la bacchetta e in un istante gli animali e il loro padrone furono trasformati in pietra.

    Accadde più tardi che il secondo fratello tornasse dal proprio viaggio e arrivasse all’incrocio dove c’erano le tre betulle. Appena girò intorno agli alberi, vide il sangue fluire dalle incisioni sulla corteccia di due dei tre alberi. Allora pianse e disse:

    ”Ahimé! Entrambi i miei fratelli sono morti!” e anche lui si diresse verso la città sulla quale suo fratello aveva regnato, con i fedeli animali al seguito. Quando entrò in città, tutta la gente credette che il principe fosse ritornato da loro, lo circondarono così come avevano creduto il fratello minore e gli chiesero dove fosse stato e perché non fosse tornato. Lo condussero al palazzo del re, ma la principessa sapeva che non era suo marito. Così quando rimasero da soli, lo supplicò di andare a cercare suo fratello e di riportarlo a casa. Radunando i suoi animali, partì e attraversò la foresta. Posò l’orecchio a terra per ascoltare se si sentissero i versi degli animali di suo fratello. Gli sembrò di udire in lontananza un debole suono, ma non capì da quale direzione venisse. Così soffiò nel corno da caccia e ascoltò di nuovo. E di nuovo udì il suono, e stavolta gli parve provenire dalla direzione di un fuoco che ardeva in una radura. Così si diresse verso il fuoco e lì una vecchia stava radunando ramoscelli e foglie secche tra le braci. Le chiese se potesse trascorrere la notte accanto al fuoco. Ma lei gli disse che temeva i suoi animali e che prima doveva permetterle di toccare ciascuno di loro con la sua bacchetta.

    Lui le rispose:

    No di certo. Io sono il loro padrone e nessun altro all’infuori di me li toccherà. Dammi la bacchetta.” E con essa toccò la volpe che, in un attimo, si trasformò in pietra. Allora capì che era una strega e le si rivolse, dicendo:

    ”A meno che tu riporti in vita i miei fratelli e i loro animali, il mio leone ti farà a pezzi.”

    A questo punto la strega si impaurì e prendendo una giovane quercia la ridusse in cenere e la gettò sulle pietre che si trovavano li attorno. In un attimo i due principi si ersero davanti al fratello e gli animali attorno a loro.

    Quindi i tre principi tornarono insieme in città. Il re non sapeva chi fosse suo genero, ma la principessa riconobbe il marito e ci fu grande soddisfazione in tutto il paese.



    Note:

    * La fiaba è di origine lituana.

    * La fiaba è contenuta nella raccolta di fiabe di Andrew Lang, precisamente nel Libro Viola ed è la fiaba n. 5.



    Illustrazioni:

    Viola05a

    Viola05b

    Viola05c
  8. .
    * La Petite Sirène du Jet d’eau (Le Mans, Regione Loira, Francia):

    Da LeMans.Maville:

    La place du Jet-d'Eau a sa petite sirène...

    Élus, professeurs et élèves ont applaudi Suzanne Jean quand elle a dévoilé son oeuvre.

    La statue dorée orne désormais le bassin de la fontaine. DL;Elle a été dévoilée hier midi.
    La fontaine du Jet-d'Eau sera certainement encore plus photographiée par les touristes et par les Manceaux. Depuis lundi midi, le bassin est orné d'une sculpture réalisée par l'artiste mancelle Suzanne Jean.
    « Sur une proposition du maire Jean-Claude Boulard, et sur une idée du dessinateur Baringou exprimée dans un calendrier, j'ai réalisé une petite sirène en plâtre, précise Suzanne Jean. Si elle fait penser au personnage du conte d'Andersen, elle en est bien différente par ses proportions, son allure et la petite grenouille qu'elle a sur les genoux. C'est ma propre petite fille qui m'a servi de modèle. »

    Le plâtre a ensuite été confié à des classes de 1re Bac pro et de BTS plasturgie du lycée Sud pour être moulé et permettre une réalisation en béton acrylique mis en valeur par une couche de peinture dorée. Cette création artistique a été menée sur environ neuf mois. Durée symbolique pour l'artiste qui a fait don de son oeuvre à la ville du Mans.

    En présence de Jean-Claude Boulard, d'Emmanuel Roy, directeur académique des services de l'Éducation nationale, de Laurent Tirel, proviseur du Lycée sud, des professeurs et des élèves qui ont participé à la réalisation, Suzanne Jean a été très applaudie quand elle a enlevé le voile qui recouvrait sa Petite Sirène qui regarde la ville, assise dans l'eau.

    Ouest-France
  9. .
    Da Le Favole di Lang:

    Il coltello incantato

    C’era una volta un giovane che aveva giurato non avrebbe sposato altri che una ragazza nelle cui vene scorresse sangue regale. Un giorno si fece coraggio e andò a palazzo a chiedere la mano della figlia dell’imperatore. L’imperatore non era molto al pensiero di una simile unione perché aveva un’unica figlia, tuttavia disse solo, assai educatamente:

    ”Ebbene figlio mio, se conquisterai la principessa, l’avrai, ma le condizioni sono queste. In otto giorni devi riuscire a domare e a portarmi tre cavalli che non abbiano mai avuto un padrone. Il primo tutto bianco, il secondo rosso volpino con la testa nera e il terzo nero come il carbone con la testa e le zampe bianche. E inoltre tu dovrai portare in dono all’imperatrice, mia moglie, tanto oro quanto ne possono portare i tre cavalli.”

    Il giovanotto ascoltò costernato queste parole, ma con uno sforzo ringraziò l’imperatore per la sua gentilezza e lasciò il palazzo, domandandosi come avrebbe svolto il compito affidatogli. Per sua fortuna la figlia dell’imperatore aveva ascoltato di nascosto tutto ciò che il padre aveva detto e, spiando tra le tende, aveva guardato il giovane, trovandolo affascinante come nessun altro che avesse mai visto.

    Così, tornando in fretta nella propria stanza, gli scrisse una lettera che fece consegnare da un servo fidato, pregando il corteggiatore di venire nella sua stanza molto presto la mattina seguente e di non fare nulla senza il suo consiglio, se proprio desiderava che lei diventasse sua moglie.

    Quella notte, mentre il padre dormiva, lei sgattaiolò nella sua camera e portò via un coltello incantato dal forziere in cui egli custodiva i propri tesori, poi lo nascose con cura in un luogo sicuro prima di andare a letto.

    Il mattino seguente il sole si stava appena alzando quando la balia della principessa condusse il giovane nei suoi appartamenti. Nessuno dei due parlò per alcuni minuti, ma rimasero immobili tenendosi la mano felici finché infine entrambi gridarono che solo la morte li avrebbe separati. Poi la fanciulla disse:

    ”Prendi il mio cavallo e cavalca nel bosco verso occidente finché giungerai a una collina con tre punte. Quando sarai lì, svolta prima a destra e poi a sinistra e ti troverai in un prato soleggiato in cui stanno pascolando alcuni cavalli. Devi condurre fuori dalla mandria i tre che mio padre ti ha descritto. Se saranno riluttanti e rifiuteranno di lasciarti avvicinare, estrai il coltello e fallo scintillare sotto il sole così che tutto il prato sia illuminato dai suoi raggi, e i cavalli si avvicineranno a te di loro spontanea volontà e si lasceranno condurre via. Quando li avrai con certezza, guardati attorno finché vedrai un cipresso, che ha le radici di ottone, i rami d’argento e le foglie d’oro. Raggiungilo, taglia via le radici con il coltello e troverai un’infinita quantità di borse piene d’oro. Carica sui cavalli tutte quelle che potranno portare poi torna da mio padre e digli che hai svolto il tuo compito e che mi rivendichi come moglie.”

    La principessa gli aveva detto tutto quanto doveva e adesso dipendeva dal giovane fare la propria parte. Nascose il coltello tra le pieghe della veste, montò a cavallo e cavalcò in cerca del prato. Lo trovò senza molte difficoltà, ma i cavalli erano tutti così timidi che galoppavano via appena si avvicinava. Allora estrasse il coltello e lo tenne sotto il sole, e subito scintillò con tale splendore che tutto il prato ne fu inondato. I cavalli gli si fecero attorno da ogni lato e ognuno di essi che lo avvicinava, si inginocchiava per rendergli omaggio.

    Però lui scelse solo i tre che l’imperatore gli aveva descritto. Li legò al proprio cavallo con una corda di seta e poi si guardò attorno in cerca del cipresso. Si ergeva solitario in un angolo e in un attimo gli fu vicino, scalzando la terra con il coltello. Scavò più a fondo, sempre più giù, fino alle radici di ottone, e il coltello urtò il tesoro sepolto, che giaceva tutt’intorno ammucchiato dentro le borse. Con grande sforzo le estrasse dal nascondiglio e le mise a una a una sul dorso dei cavalli, e quando non avrebbero potuto portarne di più, tornò dall’imperatore. Quando l’imperatore lo vide, si meravigliò, ma non indovinò quanto il giovane fosse stato troppo astuto per lui finché la cerimonia di fidanzamento non fu terminata. Allora chiese al novello genero quale dote chiedesse insieme con la sposa. Al che lo sposo rispose: “Nobile imperatore! Tutto ciò che desidero è poter avere in moglie vostra figlia e godere per sempre dell’uso del vostro coltello incantato.”



    Note:

    * Il Coltello Incantato è una fiaba popolare serba.

    * La fiaba è contenuta nella raccolta di fiabe di Andrew Lang, precisamente nel Libro Viola ed è la fiaba n. 18.


    Illustrazioni:

    viola18a

    viola18b
  10. .
    Da Le Favole di Lang:

    La gatta ingegnosa

    C’era una volta un vecchio che abitava con suo figlio in una capannuccia ai margini della pianura. Era assai vecchio, aveva lavorato duramente e quando alla fine cadde malato, sentì che non si sarebbe mai più rialzato di nuovo dal letto.

    Così un giorno disse alla moglie di chiamare loro figlio, quando fosse tornato dal viaggio nella città più vicina in cui era andato a comperare il pane.

    ”Vieni qua, figlio mio,” disse, “so bene di essere in punto di morte e non niente altro da lasciarti se non il mio falco, la mia gatta e il mio levriero; se ne farai buon uso, non ti mancherà mai il cibo. Sii buono con tua madre, come lo sei stato con me. Addio!”

    Poi volse la testa verso il muro e morì.

    Per molti giorni vi fu grande dolore nella capanna, ma alla fine il figlio si alzò e, chiamando il levriero, la gatta e il falco, lasciò la casa, dicendo che sarebbe andato a procurare qualcosa per il pranzo. Vagando nella pianura, vide un gruppo di gazzelle e le indicò al levriero perché desse loro la caccia. Ben presto il cane uccise un bell’esemplare grasso e, gettandoselo sulle spalle, il giovane tornò verso casa. Lungo la strada oltrepassò uno stagno e, come si avvicinò, uno stormo di uccelli si alzò in volo. Scrollando il polso, il falco appollaiato lì si librò in aria e scese in picchiata sulla preda che aveva adocchiato, la quale cadde morta sul terreno. Il giovane la raccolse, la mise nella borsa e poi tornò di nuovo verso casa.

    Vicino alla capanna c’era un piccolo granaio nel quale teneva il frutto del piccolo appezzamento di grano, che cresceva vicino al giardino. Qui un topo quasi gli passò sotto i piedi, seguito da un altro e poi da un altro ancora; ma, rapido come il pensiero, la gatta si gettò su di loro e non ne sfuggì uno.

    Quando tutti i topi furono uccisi, il giovane lasciò il granaio. Imboccò il sentiero che conduceva alla porta della capanna, ma si fermò sentendo una mano posarsi sulla sua spalla.

    ”Giovanotto,” disse l’orco (perché tale era il forestiero) sei stato un bravo figliolo e meriti il colpo di fortuna che ti è capitato oggi. Vieni con me presso quel lago scintillante laggiù e non temere nulla.”

    Pensando un poco a ciò che gli sarebbe potuto accadere, il giovane fece come gli aveva detto l’orco e quando ebbero raggiunto la riva del lago, l’orco si voltò e gli disse:

    ”Cammina nell’acqua e chiudi gli occhi! Ti succederà di andare lentamente a fondo; fatti coraggio, andrà tutto bene. Solo prendi quanto più argento puoi portare e ce lo divideremo.”

    Così il giovane camminò coraggiosamente nel lago e si sentì sprofondare, sprofondare finché alla fine raggiunse il fondo. Davanti a lui c’erano quattro mucchio d’argento e in mezzo a essi una strana pietra bianca scintillante, contrassegnata da insolite lettere che non aveva mai visto prima. La prese per esaminarla con grande attenzione e come l’ebbe in mano, la pietra parlò.

    ”Finché mi terrai, tutti i tuoi desideri si avvereranno.” disse. “Però nascondimi nel tuo turbante e poi di’ all’orco che sei pronto per tornare su.”

    In pochi minuti il giovane era di nuovo in piedi sulla riva del lago.

    ”Ebbene, dov’è l’argento?” chiese l’orco, che lo stava aspettando.

    ”Ah, padre mio, non so come dirvelo! Ero così sconcertato e abbagliato dallo splendore di tutto ciò che ho visto, che sono rimasto come una statua, incapace di muovermi. Poi sentendo avvicinarsi dei passi, ho avuto paura e vi ho chiamato, come sapete.”

    ”Non sei migliore degli altri,” gridò l’orco e se ne andò via infuriato.

    Quando l’ebbe perso di vista, il giovane estrasse la pietra dal turbante e la guardò. “Voglio il miglior cammello che si possa trovare e gli abiti più sontuosi.” disse.

    ”Chiudi gli occhi.” rispose la pietra. Lui li chiuse e, quando li aprì di nuovo, davanti aveva il cammello che aveva desiderato mentre addosso aveva gli abiti eleganti di un principe del deserto. Montando sul cammello, richiamò con un fischio il falco sul polso e, seguito dal levriero e dalla gatta, si diresse verso casa.

    Sua madre era sulla porta e stava cucendo quando questo magnifico straniero giunse cavalcando e, colma di stupore, si inchinò davanti a lui.

    ”Non mi riconosci, madre?” disse lui con una risata. Sentendo la sua voce, la buona donna quasi cadde a terra per lo stupore.

    ”Come hai avuto quel cammello e quegli abiti” chiese. “Mio figlio può aver commesso un omicidio per averli?”

    ”Non temere, me li sono procurati onestamente,” rispose il giovane. “Ti spiegherò tutto tra poco, ma adesso devi andare a palazzo e dire al re che desidero sposare sua figlia.”

    A queste parole la madre pensò che il figlio fosse certamente impazzito e lo fissò con sguardo assente. Il giovane intuì che cosa avesse in cuore e rispose con un sorriso.

    “Non aver paura di nulla. Promettigli tutto ciò che chiede; in qualche modo tutto sarà realizzato.”

    Così lei andò a palazzo, dove trovò il re seduto nella sala delle udienze che stava ascoltando suppliche dei sudditi. La donna attese finché ebbe ascoltato tutti e la sala si fu svuotata, poi andò a inginocchiarsi davanti al trono.

    ”Mio figlio mi ha mandata a chiedervi la mano della principessa.” disse.

    Il re la guardò e pensò che fosse matta; tuttavia, invece di ordinare alle guardie di gettarla fuori, rispose con serietà:

    ”Prima che possa sposare la principessa, dovrà costruirmi un palazzo di ghiaccio che possa essere riscaldato dal fuoco e in cui possano vivere i più rari uccelli canterini!”

    ”Sarà fatto, vostra Maestà.” disse lei, poi si alzò e lasciò la sala.

    Il figlio la stava aspettando ansiosamente fuori dai cancelli del palazzo, con addosso gli abiti che indossava tutti i giorni.

    ”Ebbene, che cosa dovrò fare?” chiese con impazienza, trascinando la madre in disparte così che nessuno li potesse ascoltare di nascosto.

    ”Oh, qualcosa di impossibile, a dir poco; e spero ti leverai dalla testa la principessa.” rispose lei.

    ”Beh, di che si tratta?” insistette lui.

    ”Niente altro che costruire un palazzo di ghiaccio in cui il fuoco possa ardere tanto da riscaldarlo così che vi possano vivere I più delicate uccelli canterini!”

    ”Avrei pensato a qualcosa di più difficile di ciò,” esclamò il giovane. “Mi ci dedicherò subito.” E lasciando la madre, andò in paese e prese la pietra dal turbante.

    ”Voglio un palazzo di ghiaccio che possa essere riscaldato dal fuoco e sia pieno dei più rari uccelli canterini!”

    ”Allora chiudi gli occhi.” disse la pietra; lui li chiuse e quando li aprì di nuovo, c’era un palazzo, il più splendido che avesse potuto immaginare in cui il fuoco lasciava trasparire dal ghiaccio una morbida e rosea luminosità.

    ”È proprio adatto alla principessa.” pensò tra sé.

    Il mattino seguente, appena sveglio, il re corse alla finestra e da lì vide il palazzo dall’altra parte della pianura.

    ”Quel giovane deve essere un grande mago; potrebbe essermi utile.” E quando la madre tornò di nuovo a dirgli che i suoi ordini erano stati eseguiti, la ricevette con grande onore e le disse di riferire al figlio che le nozze erano fissate per il giorno seguente.

    La principessa fu contentissima della nuova casa e anche del marito; diversi giorni trascorsero felicemente, impiegati a esplorare tutte le cose meravigliose che il palazzo conteneva. Ma alla fine il giovane si stancò di stare sempre tra quattro mura e disse alla moglie che il giorno dopo l’avrebbe lasciata per alcune ore e sarebbe andato a caccia. “Ti dispiace?” chiese. E lei rispose da buona moglie:

    ”Certo che mi dispiace, ma trascorrerò il giorno a preparare nuovi vestiti e sarà così delizioso quando sarai tornato, lo sai!”

    Così il marito andò a caccia, con il falco sul polso e il levriero e la gatta al seguito – perché il palazzo era così caldo che neppure al gatto veniva in mente di viverci.

    Se n’era appena andato che l’orco, il quale aveva aspettato l’occasione per diversi giorni, bussò alla porta del palazzo.

    ”Sono appena tornado da un paese lontano,” disse, “e ho con me alcune delle pietre più grandi e brillanti del mondo. La principessa è nota per il suo amore per le cose belle, forse le piacerebbe acquistarne alcune?”

    Dovete sapere che la principessa si era chiesta per molti giorni che guarnizioni potesse applicare ai vestiti così che essi superassero in splendore quelli delle altre dame per il ballo di corte. Nulla di ciò che aveva pensato le era parso abbastanza buono così, quando le fu recapitato il messaggio che l’orco e le sue mercanzie erano giù di sotto, lei subito ordinò che egli fosse condotto nella sua stanza.

    Oh! Che pietre meravigliose dispose davanti a lei; che incantevoli rubini e che perle rare! Nessun’altra donna avrebbe avuto gioielli simili – di ciò la principessa era piuttosto sicura; tuttavia abbassò gli occhi affinché l’orco non potesse vedere quanto li desiderasse.

    ”Temo che saranno troppo costosi per me,” disse con indifferenza, “e inoltre proprio ora non avrei bisogno di altri gioielli.”

    ”Io stesso non desidero particolarmente venderli,” rispose l’orco con la medesima indifferenza, “ma ho una collana di pietre scintillanti che mi è stata lasciata da mio padre e una, la più grande, incisa con strani caratteri, si è perduta. Ho sentito che è in possesso di vostro marito e se mi darete quella pietra, potrete avere qualsiasi gioiello sceglierete. Dovrete però fingere che la volete per voi stessa; soprattutto non accennate a me perché le attribuisce una grande importanza e non vorrebbe mai dividerla con uno straniero! Domani tornerò con alcuni gioielli più belli di quelli che ho oggi con me. Arrivederci, mia signora!”

    Rimasta sola, la principessa cominciò a pensare a molte cose, ma in primo luogo a come avrebbe potuto convincere il marito a darle o no la pietra. Per un momento si rese conto che le aveva già dato così tanto che sarebbe stata una vergogna domandargli l’unica cosa che teneva in serbo. No, come sarebbe, non lo avrebbe fatto! Poi però, quei diamanti e quei fili di perle! Dopo tutto erano sposati solo da una settimana e il piacere di dargliela doveva essere più grande del piacere di tenerla per sé. E fu certa che fosse così!

    Ebbene, quella note, quando il giovane ebbe cenato con i piatti preferiti che la principessa si era premurata di far preparare per lui, gli si sedette vicino e cominciò ad accarezzargli la testa. Per un po’ di tempo non parlò, ma ascoltò attentamente tutte le avventure che gli erano accadute quel giorno.

    ”Ti ho pensata per tutto il tempo,” disse lui alla fine, “desiderando di poteri portare qualcosa che ti piacesse. Ma, ahimè, che cosa è che tu non possieda già?”

    ”Come sei buono a non dimenticarti di me quando sei nel bel mezzo di tali pericoli e patimenti,” rispose lei. “Sì, è vero che possiedo molte cose magnifiche, ma se tu volessi farmi un regalo – e domani è il mio compleanno – c’è una cosa che desidererei moltissimo.”

    ”Che cos’è? Naturalmente l’avrai subito.” rispose lui con ardore.

    ”È quella pietra lucente che è caduta dalle pieghe del tuo turbante pochi giorni fa,” rispose lei, giocherellando con le sue dita; “la piccola pietra con tutti quei buffi segni sopra. “Non ho mai visto prima nessuna pietra simile.”

    Dapprima il giovane non rispose, poi disse, piano:

    ”Ho promesso e perciò devo mantenere. Mi giuri che non te ne separerai mai e che la terrai sempre al sicuro con te? Non posso dirti di più, ma ti prego sinceramente di tener conto di ciò.”

    La principessa trasalì leggermente per il suo atteggiamento e cominciò a dispiacersi di aver dato ascolto all’orco. Tuttavia non le piaceva tirarsi indietro, finse di essere immensamente contenta del nuovo trastullo e baciò e ringraziò il marito per esso.

    ’Dopotutto non devo per forza darla all’orco.” pensò mentre si coricava.

    Sfortunatamente il mattino seguente il giovane andò di nuovo a caccia e l’orco, che stava osservando, se ne accorse e arrivò più presto che mai. Nel momento in cui bussò alla porta del palazzo, la principessa si era stancata di tutte le proprie occupazioni e le sue damigelle non sapevano più dove sbattere la testa per divertirla quando un uomo nero e alto, vestito di rosso, venne ad annunciare che l’orco da basso e desiderava sapere se la principessa voleva parlargli.

    ”Conducilo subito qui!” gridò, balzando dai cuscini e dimenticando tutti i propositi della notte precedente. Un momento dopo era china in estasi sulle gemme scintillanti.

    ”L’avete presa?” disse l’orco in un soffio perché le damigelle della principessa stavano il più possibile vicino per gettare un’occhiata ai meravigliosi gioielli.

    ”Sì’, è qui,” rispose lei, facendo scivolare la pietra dalla cintura e mettendola tra le altre. Allora alzò la voce e cominciò a parlare rapidamente dei prezzi delle catenine e delle collane e, dopo aver contrattato un po’, ingannò le damigelle,dichiarando che le piaceva solo un filo di perle più di tutto il resto e che l’orco avrebbe potuto portare via le altre cose, che non erano preziose nemmeno la metà di ciò che lui aveva supposto.

    ”Come piace a voi, mia signora.” disse lui, uscendo dal palazzo con un inchino.

    Appena se ne fu andato, accadde una cosa strana. La principessa sfiorò casualmente il muro della propria stanza, che di solito riverberava la calda luce rossa del fuoco nel focolare, e si accorse che la mano era completamente bagnata. Si volse attorno e, era una fantasia o le fiamme bruciavano più debolmente di prima? Passò frettolosamente nella galleria dei ritratti, in cui c’erano qua e là pozze d’acqua sul pavimento, e un brivido di freddo le percorse il corpo. In quel momento le sue damigelle spaventate stavano correndo giù per le scale, gridando:

    “Mia signora! Mia signora! Che cosa sta succedendo? Il palazzo sta scomparendo sotto i nostri occhi!”

    ”Mio marito sarà presto a casa,” rispose la principessa la quale, sebbene fosse più spaventata delle sue damigelle, sentiva di dover dare loro il buon esempio. “Aspettiamo fino ad allora e lui ci dirà che cosa fare.”

    Così attesero, sedute sugli scalini più alti che avessero potuto trovare, avvolte nei loro indumenti più caldi e con strati di cuscini sotto i piedi, mentre i poveri uccelli svolazzavano qua e là con ali intirizzite finché furono così fortunati da trovare una finestra aperta in un angolo dimenticato. Si dileguarono attraverso di essa e non si videro più.

    Alla fine, quando la principessa e le sue damigelle furono costrette a lasciare le stanze al piano superiore, in cui i muri e i pavimenti si erano liquefatti, e a trovare rifugio nell’atrio, il giovane tornò a casa. Aveva cavalcato al ritorno lungo una strada tortuosa dalla quale non poteva vedere il palazzo finché non vi fosse abbastanza vicino e restò inorridito dallo spettacolo davanti a sé. Capì in un istante che la moglie aveva tradito la sua fiducia, ma non volle rimproverarla perché doveva soffrire già abbastanza. Affrettandosi, balzò oltre ciò che restava delle mura del palazzo e la principessa gettò un grido di sollievo, vedendolo.

    ”Uscite in fretta,” disse lui, “o morirete di freddo!” e una piccola processione desolata venne fuori dal palazzo del re, con il levriero e la gatta alla retroguardia.

    Ai cancelli le lasciò, sebbene la moglie lo implorasse di permetterle di entrare.

    ”Mi hai tradito e mi hai rovinato,” disse lui severamente; “”Andrò da solo altrove in cerca di fortuna. “ E senza un’altra parola, si voltò e la lasciò.

    Con il falco sul polso e il levriero e la gatta dietro di lui, il giovane camminò a lungo, chiedendo a chiunque incontrasse se avessero visto l’orco suo nemico. Nessuno lo aveva visto. Allora ordinò al falco di volare su nel cielo – su, su e su – e di tentare di scovare il vecchio ladro con i suoi occhi acuti. L’uccello dovette salire tanto in alto che non tornò per alcune ore; ma disse al padrone che l’orco giaceva addormentato in uno splendido palazzo in un lontano paese in riva la mare. Fu una notizia assai gradevole per il giovane il quale immediatamente si procurò un po’ di carne per il falco, offrendogli un buon pasto.

    Egli disse. “Domani volerai al palazzo in cui si trova l’orco e, mentre dorme, cercherai dappertutto una pietra sulla quale sono incisi strani segni; ecco che cosa mi dovrai portare. Aspetterò qui che tu faccia ritorno entro tre giorni.”

    ”Ebbene, devo condurre con me la gatta.” rispose l’uccello.

    Il sole non era ancora sorto prima che il falcone volasse alto nell’aria, con la gatta seduto sul dorso, le zampe saldamente afferrate al collo dell’uccello.

    ”Faresti meglio a chiudere gli occhi o potresti avere le vertigini.” disse l’uccello, e la gatta, che non si era mai allontanata da terra eccetto che per arrampicarsi su un albero, fece come le era stato ordinato.

    Volarono tutto quel giorno e tutta quella note e il mattino videro il palazzo dell’orco sotto di loro.

    Aprendo gli occhi per la prima volta, la gatta disse: “Dio mio, quella laggiù mi sembra proprio una città di topi; scendiamo, può essere che ci possano aiutare.” Così atterrarono tra i cespugli nel cuore della città di topi. Il falco rimase dove si trovava, ma la gatta attraversò il cancello principale, provocando terribile agitazione tra i topi.

    Alla fine, vedendo che non si muoveva, il più audace di essi sporse la testa da una finestra al piano superiore del castello e disse, con voce tremante:

    ”Perché sei venuta qui? Che cosa vuoi? Se c’è qualcosa che possiamo fare, diccelo, e la faremo.”

    ”Se mi aveste lasciata parlare prima, vi avrei detto che vengo in amicizia,” rispose la gatta; “vi sarei molto obbligata se mi mandaste quattro tra i più forti e i più astuti di voi, per rendermi un servigio.”

    ”Oh, ne saremmo felicissimi,” rispose il topo, assai sollevato. “Se mi spiegherai che cosa desideri, io potrò meglio giudicare chi sia più adatto al compito.”

    La gatta disse: “Ti ringrazio, ebbene, ecco ciò che devono fare: stanotte dovranno scavare un buco sotto le mura del castello e salire nella stanza in cui un orco giace addormentato. Da qualche parte ha nascosto una pietra, sulla quale sono incisi strani segni. Quando l’avranno trovata, dovranno prendergliela senza che si svegli e portarla a me.”

    Il topo rispose: “I tuoi ordini saranno eseguiti.” e andò a impartire le sue istruzioni.

    Verso mezzanotte la gatta, che stava dormendo davanti al cancello, fu svegliata da un po’ d’acqua versatale sulla testa dal capo dei topi, il quale non si era deciso ad aprire le porte.

    ”Ecco qui la pietra che volevi, “disse, quando la gatta si alzò con un lieve miagolio; “se solleverai le zampe, te la getterò giù.” E così fece. “Addio, dunque,” continuò il topo, “hai un lungo viaggio da fare e faresti meglio a partire prima dell’alba.”

    ”Il tuo consiglio è buono,” rispose la gatta, sorridendo tra sé, e, mettendosi in bocca la pietra, andò in cerca del falco.

    Dovete sapere che in tutto quel tempo né la gatta né il falco avevano mangiato nulla, e il falco era molto stanco per aver trasportato un tale peso. Quando scese la notte, dichiarò che non sarebbe andato più oltre, ma che l’avrebbe trascorsa in riva al fiume.

    È il mio turno di prendermi cura della pietra,” disse, “o sembrerà che tu abbia fatto tutto e io nulla.”

    ”No, ce l’ho e la terrò.” rispose la gatta, che era stanca e irritata; e cominciarono una bella lite. Sfortunatamente, nel bel mezzo di essa, la gatta alzò la voce e la pietra cadde nell’orecchio di un grosso pesce che, guarda caso, stava nuotando da quelle parti; sia la gatta che il falco si gettarono in acqua dietro di esso, ma fu troppo tardi.

    Mezzo annegati e più che mezzo soffocati i due fedeli servitori si arrampicarono di nuovo sulla terraferma. Il falco volò su un albero e spiego le ali al sole per asciugarsi, ma la gatta, dopo essersi data una bella scrollata, cominciò a grattare le rive sabbiose e a gettare i pezzi nel fiume.

    ”A che scopo lo stai facendo?” chiese un pesciolino. “Non sai così stai rendendo fangosa l’acqua?”

    ”Sai quanto me ne importa,” rispose la gatta. “Sto riempiendo tutto il fiume, così che i pesci muoiano.”

    ”Ciò è molto scortese, visto che non ti abbiamo fatto nulla di male,” replicò il pesce. “Perché sei arrabbiata con noi?”

    ”Perché uno di voi ha preso una pietra che mi appartiene – una pietra con strani segni sopra – e che è caduta in acqua. Se mi prometterai di riportarmela, ebbene, forse lascerò stare il vostro fiume.”

    ”Ci proverò certamente.” rispose in gran fretta il pesce; “ma tu devi avere un po’ di pazienza, potrebbe non essere un compito facile. “ e in un attimo si videro scintillare oltre le sue squame.

    Il pesce nuotò più veloce che poté verso il mare, che non era molto distante e, chiamando a raccolta tutti i parenti che vivevano nelle vicinanze, raccontò loro del terribile pericolo che minacciava gli abitanti del fiume.

    ”Nessuno di noi ce l’ha,” dissero i pesci, scrollando le teste, “ma nella baia laggiù c’è un tonno il quale, sebbene sia vecchio, va sempre dappertutto. Potrebbe essere in grado di dirti qualcosa, se nessun altro può.” Così il pesciolino nuotò dal tonno e di nuovo ripeté la storia.

    ”Ma sì, ero proprio in quel fiume poche ore fa!” esclamò il tonno; “e mentre stavo tornando indietro, qualcosa mi è caduto nell’orecchio e lì è ancora, perché sono andato a dormire quando sono tornato a casa e me ne sono dimenticato completamente. Forse potrebbe essere ciò che vuoi tu.” E, allungando la coda, scosse via la pietra.

    ”Sì, penso che potrebbe essere questa.” disse il pesce, felice. Prendendo in bocca la pietra, la portò nel luogo in cui la gatta lo stava aspettando.

    ”Ti sono molto riconoscente,” disse la gatta, appena il pesce depose la pietra sulla sabbia, “e ti ringrazio; lascerò stare il vostro fiume.” E salì sul dorso del falco quindi tornarono dal padrone.

    Come fu felice di vederli di nuovo con la pietra magica in loro possesso! In un attimo desiderò un palazzo, ma stavolta di marmo verde, poi desiderò che la principessa e le sue damigelle lo abitassero. E lì vissero per tanti anni e, quando il vecchio re morì, il marito della principessa regnò al posto suo.



    Note:

    * Adattamento da Racconti berberi.

    * La fiaba presenta somiglianze con la fiaba del Gatto con gli Stivali di Charles Perrault.

    * La struttura di questa fiaba ricorda quella di Aladino e la lampada magica. Anche qui c'è un giovane che con un oggetto magico realizza tutti i desideri, sposa la figlia del re, viene tradito involontariamente dalla moglie e riconquista la propria fortuna. Invece del mago c'è un orco e il giovane ritrova la felicità grazie ai propri animali

    * La fiaba è contenuta nella raccolta di fiabe di Andrew Lang, precisamente nel Libro Arancione ed è la fiaba n. 13.


    Illustrazioni:

    arancione13a

    arancione13b

    arancione13c
  11. .
    Da Le Favole di Lang:

    Le strane avventure della piccola Maia

    C’era una volta una donna che aveva una graziosa casetta e un giardino proprio nel cuore della foresta. Per tutta l’estate era completamente felice occupandosi dei fiori e ascoltando gli uccelli che cantavano sugli alberi, ma in inverno, quando cadeva la neve sul terreno e i lupi ululavano vicino alla porta, si sentiva assai sola e spaventata. “Se solo avessi un figlio con cui parlare, per quanto piccolo, che consolazione sarebbe!” si diceva. E più abbondante cadeva la neve, più spesso ripeteva quelle parole. E infine arrivò un giorno in cui non poté tollerare più a lungo il silenzio e la solitudine, così si mise in cammino verso il villaggio più vicino per pregare qualcuno di venderle o di prestarle un bambino.

    La neve era assai alta e le arrivava sopra le caviglie, e le occorse quasi un’ora per percorrere poche centinaia di iarde.

    ”Di questo passo diventerà buio prima che io raggiunga la prima casa,” pensò e si fermò a guardarsi attorno. Improvvisamente una donnina con un cappello a punta uscì da dietro un albero di fronte a lei.

    ”È una brutta giornata per mettersi in cammino! State andando lontano?” chiese la donnina.

    ”Beh, voglio andare al villaggio; ma non vedo come potrò mai giungervi.” rispose l’altra.

    ”E posso chiedervi che affare urgente vi conduca là?” chiese la donnina, che in realtà era una strega.

    ”La mia casa è così desolata,senza nessuno con cui parlare; non posso stare da sola e sto cercando un bambino – non importa quanto piccolo – che mi faccia compagnia.”

    ”Oh, se è tutto qui, non avete bisogno di proseguire,” replicò la strega, mettendo la mano in tasca. “Guardate, qui c’è un chicco d’orzo, a titolo di favore lo avrete per dodici scellini, e se lo pianterete in un vaso di fiori e gli darete acqua in abbondanza, in pochi giorni vedrete qualcosa di meraviglioso.”

    Questa promessa risollevò il morale della donna. Pagò volentieri il prezzo e, appena fu tornata a casa, fece un buco in un vaso di fiori e vi mise il seme.

    Attese per tre giorni, distogliendo a malapena lo sguardo dal vaso di fiori nell’angolo più caldo, e la terza mattina vide che, mentre era addormentata, era sbocciato un alto tulipano rosso, avvolto in foglie verdi.

    ”Che fiore meraviglioso,” gridò la donna, fermandosi a baciarlo, quando, dopo averlo fatto, i petali rossi si spalancarono e in mezzo a essi c’era una graziosa bambinetta alta solo un pollice. Questa minuscola creatura era seduta su un materasso di violette e coperta da una trapunta di petali di rose; aprì gli occhi e sorrise alla donna come se l’avesse conosciuta da sempre.

    ”Oh, tesoro! Non sarò mai più sola!” esclamò rapita, e la bambina sollevò la testa abbastanza per dire:

    ”No, naturalmente se non lo vuoi!”

    La donna non perse tempo nel procurarsi un grosso guscio di noce, che foderò abbondantemente di raso bianco e lì collocò il materasso con la bambina, che aveva chiamato Maia. Questo era il suo letto e stava su una seggiola vicino a dove stava dormendo la sua mamma adottiva; ma la mattina fu sollevata e deposta su una foglia in mezzo a un’ampia ciotola d’acqua e fornita di due crini bianchi di cavallo per remarvi dentro. Era la più felice delle bambina che si fosse mai vista e trascorreva l’intero giorno cantando tra sé, in un suo linguaggio che nessun altro poteva comprendere.

    Per varie settimane le due vissero insieme e non si stancavano mai l’una dell’altra, quando accadde una terribile disgrazia. Una notte in cui la madre adottiva dormiva pesantemente dopo una giornata di duro lavoro, una grossa e brutta rana bagnata balzò dentro attraverso una finestra aperta e rimase a fissare Maia sotto la sua trapunta di petali di rose.

    ”Mio Dio! È proprio una fanciullina graziosa,” pensò tra sé la rana, “potrebbe diventare una buona moglie per mio figlio.” E afferrando con la bocca il guscio di noce, saltò con esso fino alla riva del ruscello che scorreva nel giardino.

    ”Vieni a vedere che cosa ti ho portato.” Disse la vecchia rana, quando ebbe raggiunto la propria casa nel fango.

    ”Cra! Cra! Cra!” gracidò il figlio, fissando con piacere la bimba addormentata.

    ”Zitto, non fare così tanto rumore o la sveglierai!” sussurrò la madre. “”Intendo farne una buona moglie per te e mentre ci stiamo preparando per le nozze, la deporremo sulla ninfea in mezzo al ruscello, così che non possa fuggire da noi.”

    Fu in quella verde prigione galleggiante che Maia si svegliò, spaventata e perplessa, ai primi raggi del sole. Si drizzò sulla foglia, guardandosi attorno in cerca di una via di scampo e, non trovandone nessuna, sedette di nuovo e pianse amaramente. Alla fine i suoi singhiozzi furono uditi dalla vecchia rana che era affaccendata in casa in fondo alla palude, che tesseva un soffice tappeto di giunchi per i piedi di Maia e intrecciava cannicci e viti sul vano della porta, perché sembrasse bello alla sposa.

    ”Ah, la povera bambina si sente persa e infelice,” pensò pietosamente, perché era di buon cuore. “Ebbene, ho appena finito e così mio figlio ed io andremo a prenderla. Quando vedrà com’è bello, sorriderà di nuovo.” E in pochi istanti entrambi comparvero accanto alla foglia.

    ”Questo è il tuo futuro marito. Hai mai visto nessuno come lui?” chiese la madre orgogliosa, spingendolo avanti. Ma dopo una sola occhiata Maia pianse ancora di più; i pesciolini che vivevano nella corrente vennero a nuotare intorno a lei per vedere di che cosa si trattasse.

    ”È assurdo che una creatura così graziosa possa essere obbligata a prendere un marito che non vuole,” si dicevano gli uni con gli altri. “E per di più così brutto! In ogni modo, possiamo impedirlo facilmente.” E a turno rosicchiarono lo stelo della ninfea finché alla fine fu libera e, tenendola in bocca, portarono lontano Maia fin dove il piccolo ruscello si gettava nel grande fiume.

    Oh, quanto piacque a Maia quel viaggio, quando fu completamente sicura che le rane non l’avrebbero raggiunta più. Toccò molte città e la gente sulle rive si girava tutta a guardarla ed esclamava:

    ”Che ragazzina incantevole! Da dove sarà mai venuta?”

    ”Che ragazzina incantevole!” cinguettavano gli uccelli sui cespugli. E una farfalla blu si innamorò di lei e non avrebbe voluto lasciarla, così prese la fascia, che ben si adattava a lui, e gliela legò intorno al corpo cosicché con questo nuovo genere di cavallo viaggiò assai più velocemente di prima.

    Sfortunatamente accadde che un grosso scarabeo, che stava ronzando oltre il fiume, le lanciò un’occhiata e la catturò con le zampe. La povera farfalla fu terribilmente spaventata alla sua vista e lottò duramente per liberarsi, affinché la fascia cedesse, e volò verso la luce del sole. Maia non fu così fortunata e sebbene lo scarabeo raccogliesse miele dai fiori per la sua cena e le dicesse più volte quanto fosse bella, non si sentiva a proprio agio con lui. Lo scarabeo se ne accorse e chiamò le sorelle a giocare con lei; ma esse la guardavano sgarbatamente e dicevano:

    ”Dove hai raccolto questa strana cosa? Bisogna ammettere che è proprio brutta, ma uno dovrebbe impietosirsi per lei che ha solo due gambe.”

    ”Sì, e non ha le antenne,” aggiunse un’altra; “ed è così piccola! Beh, nostro fratello ha certamente gusti bizzarri!”

    ”Sì che li ha!” fecero eco le altre. E lo ripetevano così sonoramente e così spesso che alla fine lui ci credette e, portandola via dall’albero sul quale l’aveva collocata, la posò su una margherita che cresceva sul terreno.

    Maia rimase lì per tutta l’estate e davvero non fu completamente infelice. Si azzardava a passeggiare da sola e si intrecciò un letto di fili d’erba che pose al riparo sotto una foglia di trifoglio. Le corolle rosse che crescevano nell’acquitrino contenevano tanta rugiada quanta gliene serviva e lo scarabeo le aveva insegnato come procurarsi il miele. Ma l’estate non dura per sempre e in breve i fiori appassirono e invece della rugiada ci furono neve e ghiaccio. Maia non sapeva che cosa fare perché i suoi abiti erano ridotti in stracci e sebbene tentasse di avvolgersi in una foglia secca, essa si sbriciolava sotto le sue dita. Ben presto le fu chiaro che, se non avesse trovato un altro rifugio, sarebbe morta di fame e di freddo.

    Così, radunando il coraggio, lasciò la foresta e attraversò la strada che in estate l’aveva condotta in un meraviglioso campo di grano ondeggiante, ma che adesso era solo un mucchio di steli rigidi. Girò senza meta, non vedendo altro che il cielo sopra la testa, finché improvvisamente si trovò vicino a un’apertura che sembrava condurre sottoterra.

    ”In ogni caso starò calda,” pensò Maia, “e forse chi vive qui, mi darà qualcosa da mangiare. In ogni modo, non potrà andare peggio di così.” E scese coraggiosamente nel passaggio. Ben presto giunse a una porta socchiusa e, sbirciando, scoprì un intera stanza piena di grano. Ciò la rincuorò e andò avanti velocemente finché raggiunse una cucina in cui un vecchio topo campagnolo femmina stava cucinando una torta.

    ”Povero animaletto,” gridò il topo femmina, che non aveva mai visto prima nulla di simile a lei, “sembri morta di fame! Vieni e siediti qui a scaldarti, e dividi con me la cena.”

    Maia quasi pianse di gioia per le gentili parole del topo femmina. Non ebbe bisogno di un secondo invito e mangiò più di quanto avesse mai fatto in vita propria, sebbene non fosse una colazione da colibrì! Quando ebbe finito, porse la mano e sorrise e il vecchio topo femmina le disse:

    ”Sai raccontare storie? Se è così, puoi stare con me finché il sole torna di nuovo caldo e potrai aiutarmi in casa. Qui in inverno è una noia, a meno che tu abbia qualcuno intelligente abbastanza da divertirti.”

    Sì, Maia aveva imparato una gran quantità di storie dalla madre adottiva e inoltre c’erano tutte le sue avventure e come fosse sfuggita alla morte. Sapeva anche come pulire una stanza e non mancava mai di alzarsi presto la mattina e a tenere tutto pulito e in ordine per il vecchio topo femmina.

    Così passò l’inverno piacevolmente e Maia cominciò a parlare della primavera e del tempo in cui sarebbe volute andare di nuovo per il mondo in cerca di fortuna.

    ”O, non ci devi pensare ancora per un po’,” rispose il topo campagnolo femmina. “sulla terra hanno un proverbio:

    Quando il giorno si allunga, allora il freddo aumenta;

    c’è quasi tepore, ma la neve può cadere in qualsiasi momento. Mai l’inverno se ne va senza e allora sarai grata di essere qui e non fuori! Ma oserei dire che c’è troppa quiete per una creatura giovane come te,” aggiunse, “e ho invitato il mio vicino la talpa a venire a farci visita. Ha dormito per tutti questi mesi, ma l’ho sentito svegliarsi di nuovo. Saresti una ragazza fortunata se si mettesse in testa di sposarti solo che, sfortunatamente, è cieco e non può vedere quanto tu sia carina.” E di tale cecità Maia fu davvero contenta perché non voleva una talpa per marito.

    In ogni modo di lì a poco egli fece la visita promessa e Maia non lo trovò affatto gradevole. Poteva essere ricco e istruito quanto gli pareva, ma odiava il sole, gli alberi, i fiori e tutto ciò che Maia amava di più. Dobbiamo riconoscere che, essendo cieco, non li aveva mai visti e, come molta altra gente, pensava che tutto ciò che non conosceva non valesse la pena di essere conosciuto. Ma le storie di Maia lo divertivano, sebbene non l’avesse assolutamente mai vista, e ammirava la sua voce quando cantava:

    Maria, Maria, tutta ostinata, Quanto cresce il tuo giardino? (1)

    Fai la nanna, bimbo, in cima all’albero (2); sebbene dicesse che erano senza senso e che gli alberi e i giardini erano pure sciocchezze. Quando fosse stata sua moglie, le avrebbe insegnato cose migliori da sapere.

    ”Nel frattempo,” disse, dandosi delle arie, “ho scavato un passaggio da questa casa alla mia nel quale tu puoi passare; ma ti avverto di non avere paura della grossa creatura morta che è caduta attraverso un buco del soffitto e giace su un fianco.”

    ”Che razza di creatura?” chiese Maia ansiosamente.

    ”Oh, in verità non so dirtelo,” rispose la talpa, con indifferenza; “è coperta da qualcosa di soffice, ha due piccolo gambe e una lunga cosa appuntita conficcata sulla testa.”

    ”È un uccello,” gridò Maia piena di gioia, “e io amo gli uccelli! Deve essere morto di freddo,” aggiunse, abbassando la voce. “Oh, buon signor Talpa, fatemelo vedere!”

    ”Allora vieni perché sto andando a casa.” rispose la talpa. E chiedendo al vecchio topo campagnolo femmina di accompagnarli, andarono tutti.

    ”È qui,” disse alla fine la talpa; “povero me, come sono grato alla sorte di non essere un uccello. Non sanno dire altro che ‘cip, cip’ e muoiono al primo alito di freddo.”

    ”Ah, sì, povere inutile creature,” rispose il topo campagnolo femmina. Ma mentre stavano parlando, Maia sgusciò dall’altra parte, strofinò le piume del piccolo rondone e gli baciò gli occhi.

    Rimase sveglia per tutta la notte, pensando al rondone che giaceva morta nel corridoio. Alla fine non poté sopportarlo più a lungo, sgattaiolò nel luogo in cui era conservato il fieno e intrecciò un tappeto, poi andò nel magazzino di cotone del topo campagnolo femmina, nel quale l’aveva raccolto in estate da un po’ di fiori di palude e, portando entrambi giù nel corridoio, mise il cotone sotto l’uccello e gli gettò sopra la trapunta di fieno.

    ”Eri forse una delle rondini che cantavano per me in estate,” disse. “Vorrei averti potuto riportare in vita; arrivederci!” E posò sul petto dell’uccello il volto bagnato di lacrime. Fu certa di avvertire un debole movimento contro la guancia? Sì, eccolo di nuovo! Ritenne che l’uccello non fosse morto, ma solo svenuto per il freddo e la fame! A questo pensiero Maia ritornò in fretta in casa e prese alcuni chicchi di grano e una goccia d’acqua in una foglia. Li accostò al becco dell’uccello, che aprì inconsapevolmente, e quando ebbe sorseggiato l’acqua, gli dette i chicchi a uno a uno.

    ”Non fare rumore, così che nessuno possa sospettare che tu non sia morto,” disse. “Stanotte ti porterò altro cibo e dirò alla talpa che deve richiudere il buco perché rende troppo freddo il corridoio per me quando passo. E adesso addio.” E andò via, tornando nella casa del topo campagnolo femmina, che era profondamente addormentata.

    Dopo alcuni giorni delle attente cure di Maia, il rondone diventò forte abbastanza da parlare e disse a Maia come fosse finito nel luogo in cui lo aveva trovato. Prima di essere abbastanza grande per volare molto in alto, si era lacerato un’ala in un cespuglio di rose e così non era potuto andar via con la famiglia e con gli amici quando erano migrati verso terre più calde. Nel loro rapido volo non si erano accorti che il fratellino non fosse con loro e alla fine era caduto a terra per l’intensa fatica e doveva essere rotolato giù nel buco fino al corridoio.

    Era stata una vera fortuna per il rondone che sia la talpa che il topo campagnolo femmina pensassero fosse morto e non si fossero preoccupati di lui, così quando venne davvero la primavera, il sole era di nuovo caldo e i giacinti blu erano cresciuti nei boschi e le primule nelle siepi, era diventato alto e forte come i suoi compagni.

    ”Mi hai salvato la vita, cara piccola Maia,” disse, “ma ora è giunto per me il tempo di lasciarti – a meno che,” aggiunse, “tu mi permetta di portarti via sul mio dorso da questa oscura prigione.”

    Gli occhi di Maia brillarono al pensiero, ma scosse la testa coraggiosamente.

    ”Sì, tu devi andare, ma io devo trattenermi,” rispose. “Il topo campagnolo femminaè stata buona con me e non posso abbandonarla così. Pensi di poterti aprire il buco?” chiese ansiosamente. “Se così fosse, sarebbe meglio cominciassi ora perché stasera dovremo cenare con la talpa e non vorrei che la mia madre adottiva ti trovasse al lavoro.”

    ”È vero,” rispose il rondone. E volando fino al soffitto, che dopotutto non era poi così alto sopra di loro, si mise al lavoro con il becco e presto un raggio di sole entrò in quel luogo buio.

    ”Non vuoi venire con me, Maia?” disse. E sebbene il suo cuore anelasse gli alberi e i fiori, lei rispose come prima:

    ”No, non posso.”

    Quell’unico raggio di sole fu tutto ciò che Maia ebbe per un po’ di tempo perché il grano crebbe così fitto sul buco e intorno alla casa che fu come se il sole non ci fosse più del tutto. In ogni modo, sebbene sentisse ogni momento la mancanza dell’amico uccello, non ebbe modo di restare inoperosa perché il topo campagnolo femmina le aveva detto che assai presto avrebbe sposato la talpa e le diede da filare lana e cotone per il corredo. E siccome non aveva mai fatto un vestito in vita sua, quattro veloci ragni furono convinti a trascorrere alcuni giorni sottoterra, tessendo la lana e il cotone in piccoli indumenti. Maia amava i vestiti, ma odiava il pensiero della talpa cieca, solo che no sapeva come sfuggirgli. Durante le sere, quando i ragni tornavano nelle loro case per la notte, avrebbe voluto varcare con loro la porta e aspettare che un soffio di vento scostasse le spighe di grano e lei potesse vedere il cielo.

    ”Se solo il rondone tornasse adesso,” si diceva, “andrei via con lui fino alla fine del mondo. Ma non verrà mai!”

    ”Il tuo corredo è terminato,” disse il topo campagnolo femmina un giorno in cui le bacche erano rosse e le foglie gialle, ”e la talpa ed io abbiamo deciso che le nozze avverranno tra quattro settimane.”

    ”Oh, non così presto! Non così presto!” gridò Maia, scoppiando in lacrime; ciò fece arrabbiare molto il topo campagnolo femmina e le fece dichiarare che non aveva più buon senso delle altre ragazze e non sapeva quale bene sarebbe stato per lei. Poi arrivò la talpa e la condusse sul dorso a vedere la nuova casa che aveva scavato per lei, la quale era così in profondità nel terreno che le piccole gambe di Maia non sarebbero mai riuscite a riportarla tanto in alto quanto era l’abitazione del topo campagnolo femmina dalla quale avrebbe potuto vedere la luce del sole. Il suo cuore si appesantiva ogni giorno di più e l’ultima sera sgusciò nel campo tra le stoppie a guardare il tramonto del sole prima di dirgli addio per sempre.

    ”Addio, addio,” disse, “e addio al mio piccolo rondone. Ah! Se solo sapesse, verrebbe ad aiutarmi.”

    ”Cip! Cip!” gridò una voce proprio sopra di lei; e il rondone atterrò sul terreno accanto a lei. “Sembri triste; sei permetterai davvero che quella brutta talpa ti sposi?”

    ”Morirò presto, è il mio unico conforto,” rispose piangendo, ma il rondone disse solo:

    ”Tsk! Tsk! Sali sulla mia schiena, come ti avevo detto allora, e ti porterò in una terra in cui il sole splende sempre e dimenticherai che sia mai esistita una creatura come la talpa.”

    ”Sì, verrò.” disse Maia.

    Allora il rondone strappò uno stelo di grano con il forte becco e le disse di legarsi saldamente alle sue ali. Poi parti, volando e volando verso sud per molti giorni.

    Oh, com’era felice maia di vedere di nuovo il meraviglioso sole! Cento volte pregò il rondone di fermarsi, ma lui diceva sempre che il meglio doveva ancora venire; e volarono senza sosta, fermandosi solo per brevi riposi, finché giunsero in un luogo coperto di alte colonne di marmo bianco, alcune delle quali si ergevano dritte, avvolte di viti dalle quali sbucavano teste di rondini che sbirciavano; altre giacevano tra i fiori, bianchi, gialli e blu.

    ”Io vivo qui,” disse il rondone, posandosi sulla colonna più alta. “Ma una casa simile non va bene per te, potresti cadere e ucciderti. Scegli uno di quei fiori già in basso e lo avrai tutto per te, dormendovi ogni notte avvolta tra le sue foglie.”

    ”Vorrei quello,” rispose Maia, indicando un fiore bianco a forma di stella, con una piccola ghirlanda increspata di rosso e di giallo al centro, e un lungo stelo che ondeggia al vento; “quello è il più bello di tutti e ha un profumo così dolce.” Allora il rondone volo in basso; ma come si avvicinarono, videro un ometto con una corona in testa e le ali sulle spalle, che si dondolava su una delle foglie. “Ah, quello è il re degli spiriti dei fiori,” sussurrò il rondone. E il re tese la mano a Maia e l’aiutò a balzare giù dalla schiena del rondone. “Ti ho attesa a lungo,” disse lui, “ e adesso che infine sei giunta, sarai la mia regina.”

    Maia sorrise e rimase accanto a lui mentre tutte le fate che vivevano nei fiori corsero a offrirle doni; il più bello di tutti fu un paio di graziose ali di garza blu, per aiutarla a volare come loro.

    Così invece di sposare la talpa, la piccola Maia fu incornata regina e le fate danzarono in cerchio intorno a lei mentre il rondone cantava la canzone nuziale.



    Annotazioni:

    (1) Filastrocca popolare inglese alla quale si attribuiscono vari significati. Allegoria del cattolicesimo, collegamento con il personaggio di Maria, regina di Scozia.

    (2) Altra filastrocca inglese, raccolta nelle Rime di Mamma Oca del XVIII secolo, da altri ritenuta invece il primo esempio di rima proveniente dal suolo americano nel XVII secolo.



    Note:

    * La fiaba è di origine sconosciuta.

    * In realtà Le strane avventure della piccola Maia è la trascrizione della fiaba Pollicina o Mignolina di Hans Christian Andersen.

    * La fiaba è contenuta nella raccolta di fiabe di Andrew Lang, precisamente nel Libro Oliva ed è la fiaba n. 11.


    Illustrazioni:

    oliva11a

    oliva11b

    oliva11c
  12. .
    Da Le Favole di Lang:

    La Sposa Cespugliosa

    C’era una volta un vedovo che aveva avuto un figlio e una figlia dalla prima moglie. Erano entrambi bravi bambini e si amavano l’un l’altra con tutto il cuore. Dopo che fu trascorso un po’ di tempo, l’uomo si sposò di nuovo e scelse una vedova con una figlia che era brutta e malvagia, e anche la madre era brutta e malvagia. Dal primo giorno in cui la nuova moglie entrò in casa, non ci fu pace per i bambini dell’uomo e non c’era un angolo in cui potessero riposare; così il bambino pensò che la cosa migliore che potesse fare fosse andarsene per il mondo e guadagnarsi il pane.

    Dopo aver vagabondato per un po’ di tempo, giunse al palazzo del re in cui ottenne un posto al comando del cocchiere; era assai vivace e operoso e i cavalli di cui si curava divennero così ben pasciuti e lustri che scintillarono di nuovo.

    Ma sua sorella, che era rimasta a casa, stava sempre peggio. Sia la matrigna che la sorellastra cercavano sempre di coglierla in fallo, qualunque cosa facesse o dovunque andasse, e la rimproveravano e la maltrattavano tanto che non aveva mai un’ora di pace. Le facevano fare tutto il lavoro pesante, le rovesciavano addosso male parole dalla mattina alla sera e le accompagnavano con cibo appena sufficiente.

    Un giorno la mandarono al ruscello a prendere un po’ d’acqua per casa e una testa brutta e orribile sorse dall’acqua e disse: “Ragazza, lavami!”

    “Ti laverò con piacere.” disse la ragazza, e cominciò a lavare e a strofinare la brutta faccia, ma non poté fare a meno di pensare che fosse un lavoro davvero sgradevole.

    Quando ebbe finito e l’ebbe fatto bene, un’altra testa sorse dall’acqua ed era più brutta della precedente.

    “Spazzolami, ragazza!” disse la testa.

    “Ti spazzolerò con piacere.” disse la ragazza, e si mise al lavoro sui capelli arruffati e, come è facile immaginare, anche questo non era un lavoro piacevole.

    Quando ebbe fatto, un’altra testa e ancora più brutta e di aspetto orribile sorse dall’acqua.

    “Baciami, ragazza!” disse la testa.

    “Ti bacerò.” disse la figlia dell’uomo e lo fece, ma pensò di non aver mai fatto un lavoro peggiore in vita propria.

    Così le teste cominciarono a parlare l’una con l’altra e a dire che cosa avrebbero fatto per questa ragazza che era stata così piena di premure.

    “Sarò la ragazza più graziosa mai vista, chiara e luminosa come il sole.” disse la prima testa.

    “Ogni volta in cui si spazzolerà, dai capelli le cada d’oro.” disse la seconda.

    “Ogni volta in cui parlerà, le cadrà oro dalla bocca.” disse la terza testa.

    Così quando la figlia dell’uomo tornò a casa, apparendo bella e luminosa come il giorno, la matrigna e la sorellastra diventarono di pessimo umore e fu ancora peggio quando cominciò a parlare e videro che dalla bocca le cadevano monete d’oro. La matrigna ebbe un tale accesso di furia che trascinò la figlia dell’uomo nel porcile… sarebbe dovuta restare lì con il suo oro, disse la matrigna, e non le avrebbe più permesso di mettere piede in casa.

    Non passò molto tempo che la madre mandò la figlia al ruscello a prendere un po’ d’acqua.

    Quando ebbe riempito i secchi, la prima testa sorse dall’acqua vicino alla riva. “Lavami, ragazza!” disse.

    “Lavati da sola!” rispose la figlia della donna.

    Allora apparve la seconda testa.

    “Spazzolami, ragazza!” disse la testa.

    “Spazzolati da sola!” disse la figlia della donna.

    La testa andò a fondo e salì la terza.

    “Baciami, ragazza!” disse la testa.

    “Come se io volessi baciare la tua brutta bocca!” disse la ragazza.

    Di nuovo le teste parlarono tra di loro su che cosa avrebbero fatto per questa ragazza che era stata così sgarbata e piena di sé e concordarono che avrebbe avuto u n naso lungo quattro braccia, un mento lungo tre braccia e un cespuglio in mezzo alla fronte e ogni volta in cui avesse parlato, le sarebbe caduta cenere dalla bocca.

    Quando tornò alla porta della casetta con i secchi, chiamò la madre che era dentro. “Apri la porta!”

    “Apri la porta da sola, mia cara figlia.” disse la madre.

    “Non posso farcela per colpa del mio naso.” disse la figlia.

    Quando la madre venne e la vide, potete immaginare in che stato d’animo si trovasse come gridasse e si lamentasse, ma né il naso né il mento diminuivano per quello.

    Il fratello, che era a servizio nel palazzo del re, aveva portato un ritratto della sorella e portava l’immagine sempre con sé, e ogni mattina e ogni sera gli si inginocchiava davanti e pregava per la sorella, che amava teneramente.

    Gli altri stallieri lo avevano sentito farlo così spiarono nella sua stanza attraverso il buco della serratura e videro che era inginocchiato davanti a un ritratto; così dissero a tutti che ogni mattina e ogni sera il ragazzo s’inginocchiava e pregava un idolo che possedeva; alla fine andarono dal re in persona e lo pregarono di voler guardare dal buco della serratura e di vedere lui stesso ciò che il ragazzo faceva. Dapprima in re non volle credervi, ma dopo molto, molto tempo ebbero la meglio e lui andò in punta di piedi alla porta, sbirciò dal buco della serratura e vide il ragazzo in ginocchio con le mani giunte davanti a un ritratto che era appeso al muro.

    “Apri la porta!” gridò il re, ma il ragazzo non sentì.

    Così il re gridò di nuovo, ma il giovane stava pregando con tale fervore che non sentì neppure stavolta.

    “Apri la porta, ti dico!” gridò di nuovo il re. “Sono io! Voglio entrare!”

    Così il ragazzo balzò alla porta e l’aprì ma nella fretta dimenticò di nascondere il ritratto.

    Quando il re entrò e lo vide, rimase immobile come se fosse incatenato e non si riuscì a muoversi perché il ritratto gli parve così bello.

    “Non c’è da nessuna parte al mondo una donna bella come questa!” disse il re.

    Il ragazzo le disse che era sua sorella e che l’aveva dipinta lui e che se non era più bella del ritratto, in ogni caso non era più brutta.

    “Se è bella così, ne farò la mia regina.” disse il re e orinò al ragazzo di andare a casa a prenderla senza un attimo di indugio e di non perdere tempo nel tornare indietro. Il ragazzo promise di fare in fretta che poteva e lasciò il palazzo del re.

    Quando il fratello arrivò a casa a prendere la sorella, anche la la matrigna e la sorellastra vollero venire. Così partirono tutti insieme e la figlia dell’uomo prese con sé uno scrigno in cui teneva l’oro e un cane che si chiamava Nevino. Erano le due cose che aveva ereditato dalla madre. Quando ebbero viaggiato per un po’ di tempo, dovettero attraversare il mare e il fratello sedette al timone e la matrigna e le due sorellastre andarono nella prua della del vascello e navigarono per un lungo, lungo tratto. Alla fine giunsero in vista della terra.

    “Guardate quella striscia bianca laggiù, sarà là che scenderemo.” disse il fratello, indicando un punto attraverso il mare.

    “Che cosa sta dicendo mio fratello?” chiese la figlia dell’uomo.

    “Dice che devi gettare lo scrigno in mare.” rispose la matrigna.

    “Se lo dice mio fratello, devo farlo.” disse la figlia dell’uomo e buttò lo scrigno in mare.

    Quando ebbero navigato ancora per un bel po’, il fratello indicò ancora una volta un punto oltre il mare. “Là potete vedere il palazzo dove dovremo andare.” disse.

    £Che cosa sta dicendo mio fratello?” chiese la figlia dell’uomo.

    “Adesso dice che devi gettare il cane in mare.” rispose la matrigna.

    La figlia dell’uomo pianse ed era profondamente addolorata perché Nevino era la cosa più cara che avesse il mondo, ma alla fine lo gettò fuoribordo.

    “Se mio fratello lo dice, devo farlo, ma il Cielo sa quanto malvolentieri io ti getti fuori, Nevino!” disse.

    Così navigarono ancora per un bel pezzo.

    “Là potete vedere il re che ci viene incontro.” disse il fratello, indicando la spiaggia.

    “Che cosa sta dicendo mio fratello?” chiese di nuovo la ragazza.

    “Adesso dice che devi sbrigarti a gettarti fuoribordo.” rispose la matrigna.

    La ragazza pianse e si lamentò, ma siccome lo aveva detto suo fratello, pensò di doverlo fare così si gettò in mare.

    Quando arrivarono a palazzo e il re vide la brutta sposa con un naso lungo quattro braccia, un mento lungo tre braccia e la fronte che aveva in mezzo un cespuglio, ne fu completamente terrificato, ma la festa di nozze era stata preparata, erano pronti i cibi e le bevande e tutti gli ospiti era seduti in attesa, così, brutta com’era, il re fu costretto a prenderla.

    Però era molto adirato, e nessuno può biasimarlo per questo, così ordinò che il ragazzo fosse gettato in una fossa piena di serpenti.

    Il primo giovedì notte dopo ciò, una meravigliosa ragazza entrò nella cucina del palazzo e pregò la cuoca, che dormiva lì, di prestarle una spazzola. La pregò così gentilmente che l’ottenne e quando si spazzolò i capelli, cadde oro.

    Aveva con sé un cagnolino e gli disse: “Esci, Nevino, e vai a vedere se presto si fa giorno!”

    Lo disse per tre volte e la terza volta che mandò il cane a vedere, si fece proprio giorno. Allora fu costretta ad andarsene, ma mentre andava via, disse:

    Sposa cespugliosa, accanto a te,
    dome lievemente il giovane re,
    Il mio letto è fatto di pietre e sabbia,
    dorme mio fratello col serpente in gabbia.
    e nessuno che compianto l’abbia

    “Tornerò altre due volte e poi mai più.” disse la ragazza.

    La mattina la cuoca riferì ciò che aveva visto e sentito e il re disse che il giovedì successivo avrebbe sorvegliato la cucina e visto se era vero, e quando cominciò a farsi buio, andò nella cucina dalla donna. Ma per quanto si stropicciasse gli occhi e facesse di tutto per restare sveglio, fu inutile perché la Sposa Cespugliosa cantò una ninna nanna finché i suoi occhi si chiusero e allora quando la splendida ragazza venne, lui dormiva profondamente e russava.

    Questa volta, come la precedente, chiese una spazzola e si spazzolò i capelli con essa, e l’oro cadde mentre lo faceva; di nuovo mandò fuori per tre volte il cane e quando si fece giorno se ne andò, ma mentre stava andando via, disse come aveva detto la volta precedente: “Verrò ancora una volta e poi mai più.”

    Il terzo giovedì notte il re insistette ancora una volta per sorvegliare la cucina. Allora portò due uomini a sostenerlo, ciascuno di loro doveva tenerlo per un braccio e scuoterlo e dargli uno strattone al braccio ogni volta in cui sembrava che stesse per addormentarsi; e mise due uomini a sorvegliare la Sposa Cespugliosa. Ma come calò la notte, la Sposa Cespugliosa cominciò di nuovo a cantare la ninna nanna così che gli occhi cominciarono a chiuderglisi e la sua testa a ciondolare di lato. Venne la bella ragazza che prese la spazzola e si spazzolò i capelli finché ne cadde l’oro e allora mandò fuori Nevino a vedere se presto facesse giorno, e lo fece per tre volte. La terza volta cominciava a fare giorno e lei disse:

    Sposa cespugliosa, accanto a te,
    dome lievemente il giovane re,
    Il mio letto è fatto di pietre e sabbia,
    dorme mio fratello col serpente in gabbia.
    e nessuno che compianto l’abbia

    ”Adesso non verrò più di nuovo.” disse e allora si voltò per andarsene. Ma i due uomini che stavano sorreggendo il re per le braccia, gli presero una mano e lo costrinsero ad afferrare un coltello e poi a fare un taglio sul mignolo della ragazza finché sanguinò abbastanza.

    Così la vera sposa fu libera. Il re allora si svegliò e lei gli disse tutto ciò che era accaduto e come la matrigna e la sorellastra l’avessero tradita. Allora il fratello fu subito tirato fuori dalla fossa dei serpenti… i serpenti non lo avevano toccato… e invece di lui vi furono gettate dentro la matrigna e la sorellastra.

    Nessuno può dire quanto fosse contento il re di essersi liberato della Sposa Cespugliosa e di avere in cambio una regina che era luminosa e bella come il giorno.

    Furono celebrate le vere nozze e in tal modo che se ne sentì e se ne parlò per tutti e sette i regni. Il re e la sua sposa furono condotti in chiesa e anche Nevino era nella carrozza. Quando fu data loro la benedizione, tornarono di nuovo a casa e dopo non seppi più nulla di loro.



    Note:

    * La fiaba è stata raccolta da Jørgen Moe.

    * La fiaba ricorda in alcune parti la celebre Frau Holle dei Fratelli Grimm e Le Fate di Charles Perrault.

    * La fiaba è contenuta nella raccolta di fiabe di Andrew Lang, precisamente nel Libro Rosso ed è la fiaba n. 32.


    Illustrazioni:

    rosso32a

    rosso32b
  13. .
    * La Sirenetta (colonna del museo dedicato a Hans Christian Andersen) a Odense, Danimarca:

  14. .
    Sì una bravissima attrice!

    Nel Mondo di Alice si può trovare tutta integrale su RaiPlay qui:

    www.raiplay.it/programmi/nelmondodialice

    Dal sito Raiplay Sinossi:

    Dal romanzo di Lewis Carroll
    Nel mondo di Alice
    1974 Italia
    "Nel mondo di Alice", ispirato al romanzo di Lewis Carroll, è stato trasmesso dal 3 settembre 1974 al 24 settembre 1974 in quattro puntate sul Secondo Programma. Milena Vukotic è una trasognata Alice che si trova catapultata in un mondo onorico pieno di personaggi bizzarri e colorati: fra questi, Ave Ninchi nei panni della regina di cuori, Franca Valeri in quelli della duchessa, Giustino Durano nell'interpretazione del cappellaio matto. Regia di Guido Stagnaro, con la sceneggiatura di Guido Davico Bonino e Tinin Mantegazza.



    Riassunti degli Episodi:

    Nel mondo di Alice Nel mondo di Alice - S1E1
    51 min
    Alice si addormenta su un prato e sogna un coniglio parlante, preoccupato di essere in ritardo per chissà quale appuntamento: la bambina, curiosa, segue il bizzarro coniglio e precipita in un mondo misterioso ed onirico. Alice inizia il suo viaggio, divenendo gigante dopo aver mangiato un biscotto, rischiando di annegare fra le sue lacrime, incontrando animali parlanti che cercano di darsi una struttura governativa, prendendo ordini dal coniglio sempre in ritardo, imbattendosi nello scorbutico Brucaliffo. Alice, in questo strano mondo, continua a crescere e a rimpicciolirsi...

    Nel mondo di Alice St 1 Ep 2
    49 min
    Su indicazione dello Stregatto, Alice giunge alla tavola imbandita dove il cappellaio matto e la lepre marzolina stanno prendendo un tè: la loro tuttavia è una compagnia assai bislacca e Alice ben presto abbandona la strampalata conversazione per proseguire sul suo sentiero. Giunge così nel giardino della malvagia Regina di Cuori, una spietata regnante che condanna una larga fetta dei suoi sudditi alla decapitazione. Ce n'è per tutti, dalle carte da gioco che sbagliano il colore della vernice per le rose ai suonatori della quadriglia che vengono ritenuti incompetenti, al fante di cuori che è colpevole di aver mangiato tutti i dolcetti della regina. Alice, in tribunale, si schiera in difesa del fante e scatena le ire di tutta la corte.

    Nel mondo di Alice St 1 Ep 3
    54 min
    Alice si è risvegliata in un giardino dopo aver buttato le carte della Regina a gambe all'aria. Nella quiete della sua casa Alice inizia a specchiarsi e immagina di entrare tramite lo specchio in un mondo parallelo: oltrepassato il varco, Alice vi trova una scacchiera animata da una fazione di rossi e una di bianchi, acerrimi nemici. Alice, poi, si avventura nel giardino della casa parallela, un giardino incantato in cui tutti i fiori sanno parlare. I fiori le rilevano che nel giardino c'è un'altra persona come lei, che in realtà è la regina rossa degli scacchi, alla quale appartengono tutte le strade del giardino, che non è altro che una grande scacchiera. Alice, che è ora una piccola pedina e desidera diventare regina, si muove fra le caselle e si ritrova a bordo di un treno con degli strampalati passeggeri. La novella pedina giunge nel bosco delle cose senza nome, dove incontra Trullallì e Trullallà e il re rosso dormiente, il cui sonno produce il mondo nel quale Alice si trova a barcamenarsi. Alice incontra finalmente la regina bianca, sciatta e maldestra, e si offre di farle da assistente.

    Nel mondo di Alice St 1 Ep 4
    46 min
    Alice incontra il re bianco intento a far di conto e un messo giunge al suo cospetto, recando notizie dalla città: il leone e l'unicorno hanno ricominciato a combattere per contendersi la corona. Alice ed il re vanno ad assistere al combattimento, che ha per arbitro il cappellaio matto. Avventura dopo avventura, Alice continua ad avvicinarsi all'ottava casella, quella in cui potrà diventare regina: sul suo cammino, incontra il buon cavaliere bianco e si intrattiene assieme a lui prima di giungere alla sua meta. Alice indossa finalmente la sua nuova pesante corona d'oro, ma prima di diventare regina a tutti gli effetti dovrà passare un severo esame.
  15. .
    IL LAGO DEI CIGNI (Titolo originale: Лебединое озеро)

    Nazione: URSS
    Anno: 1968
    Colore: colore
    Durata: 78 minuti
    Regia: Apollinary Dudko, Konstantin Sergeev
    Attori: Yelena Yevteyeva (Odette / Odile), John Markovsky (Principe Siegfried), Makhmud Esambayev (Rothbart), Valeri Panov (Giullare), Angelina Kabarova (madre del Principe Siegfried), Valeriy Ryazanov (Tutore)

    Trama: In un giardino di fronte al palazzo reale, il principe Siegfried festeggia con i suoi amici il suo compleanno. Si avvicinano delle contadine per porgergli gli auguri e lo intrattengono con le loro danze. Arriva la Regina Madre, che regala al figlio una balestra, dato che egli è molto amante della caccia, e lo esorta a trovarsi una sposa tra le ragazze che lei ha invitato al ballo del giorno dopo. Alla sua uscita, le danze dei contadini riprendono con due divertissement, posti al di fuori dell'intreccio. La festa continua con scherzi e balli del giullare di corte. Gli ospiti rientrano nel castello ed il principe Siegfried e i suoi amici decidono di andare a caccia e imbracciato l'arco s'inoltrano nella foresta. Appare il secondo tema del cigno, più precisamente della "fanciulla cigno".
    Sulle acque di un lago nuotano i cigni, in realtà bellissime fanciulle stregate dal malvagio mago Rothbart, che possono assumere forma umana solo la notte. Siegfried e i suoi amici li contemplano sotto la luce della luna. Questo numero, ideato come entr'acte, divenne in seguito un tableau scenico. I cacciatori prendono la mira, ma proprio in quel momento i cigni si trasformano in fanciulle. La loro regina, Odette, narra al principe la loro triste storia, e spiega che solo una promessa di matrimonio fatta in punto di morte potrà sciogliere l'incantesimo che le tiene prigioniere. Siegfried, stregato dalla bellezza di Odette, la implora di prendere parte al ballo del giorno dopo, in cui egli dovrà scegliere una sposa. Ha inizio un divertissement, parte essenziale dell'intreccio, composto dalle danze delle fanciulle cigno e da un pas d'action, la cui musica è tratta dall'opera giovanile Undine, dove Siegfried e Odette si giurano eterno amore. È l'alba, e le fanciulle si ritrasformano in cigni.
    Nella sala da ballo del castello entrano gli invitati, accolti dalla Regina Madre e da Siegfried. Iniziano i festeggiamenti. Gli squilli di tromba annunciano l'arrivo delle sei ragazze aspiranti pretendenti del principe. Siegfried si rifiuta di scegliere, quand'ecco che uno squillo di tromba annuncia l'arrivo di nuovi ospiti. Si tratta del mago Rothbart e della figlia Odile che, grazie a una magia del padre, ha assunto l'aspetto di Odette. L'intento del mago è quello di far innamorare Siegfried di Odile, in modo da mantenere per sempre Odette in suo potere. La musica espone il tema del fato, e il motivo della “fanciulla cigno” suggerisce la somiglianza tra Odette e Odile, che il pubblico può comunque distinguere dal costume, che nel caso di Odile è nero. Ciascuna ragazza balla una variazione per il principe. Seguono una serie di danze nazionali. Con il suo fascino, Odile è riuscita a far innamorare Siegfried, che la presenta alla madre come sua futura sposa e regina. Rothbart esultante si trasforma in una civetta e fugge dal castello, che piomba nell'oscurità fra l'orrore degli invitati. Siegfried, resosi conto dell'inganno, scorge la vera Odette attraverso un'arcata del castello, e disperato si precipita nella notte alla ricerca della fanciulla.
    Odette, morente, piange il destino crudele che la attende. Siegfried arriva da lei tentando di salvarla, ma una tempesta si abbatte sul lago e le sue acque inghiottono i due amanti. La bufera si placa e sul lago, tornato tranquillo, appare un gruppo di candidi cigni in alto volo.



    Annotazioni:

    * La pellicola è la versione a film del balletto di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Si tratta pertanto di un film-balletto, dove tutto è danzato, senza parole, solo musica e balli, messo in scena dalla Lenfilm.
    * Fa parte di una serie di film Russi degli anni '60 che rappresentano le storie classiche tipiche dei balletti russi come Scarpetta di Cristallo, La Bella Addormentata e Romeo e Giulietta.
    * I registi Apollinary Dudko e Konstantin Sergeev hanno diretto anche un altro film-balletto tratto dalle opere di Cajkovskij, La Bella Addormentata.
    * La prima ballerina del Bolshoi Ballet, Yelena Yevteyeva, interpreta il doppio ruolo di Odette (Cigno Bianco) e Odile (Cigno Nero).
    * La produzione è affidata alla LenFilm, celebre casa sovietica.


    Video:

    Click


    Immagini:

    swan-lake-japanese

    MV5BNWZlN2QxODYtNWQ3Yi00N2QzLWFmMTMtMjk3ZmI1ZGMyNjkxXkEyXkFqcGdeQXVyNjg3MTIwODI@._V1_

    jpg

    MV5BMjIxOTM5ODExOV5BMl5BanBnXkFtZTcwODc2MTIzMg@@._V1_UY268_CR4,0,182,268_AL_

    800px-%D0%9F%D0%BE%D1%81%D1%82%D0%B5%D1%80_DVD-%D1%84%D0%B8%D0%BB%D1%8C%D0%BC%D0%B0-%D0%B1%D0%B0%D0%BB%D0%B5%D1%82%D0%B0_%C2%AB%D0%9B%D0%B5%D0%B1%D0%B5%D0%B4%D0%B8%D0%BD%D0%BE%D0%B5_%D0%BE%D0%B7%D0%B5%D1%80%D0%BE%C2%BB_%28%D0%A1%D0%A1%D0%A1%D0%A0%2C_1968%29

    MV5BZTM3NzAwOGItNDExNC00OGIzLWI0NTgtY2FhZTk4YTJjM2FhXkEyXkFqcGdeQXVyNjg3MTIwODI@._V1_





    MV5BMTU1ZTIwNGYtYzVjNC00MjViLTljNWItZTZiYjBiN2M2Mzk2XkEyXkFqcGdeQXVyNjg3MTIwODI@._V1_





    MV5BNWExNjkxODgtMzhiMy00MzdmLWIzZTktNDg2MTc0YjYxMjVhXkEyXkFqcGdeQXVyNjg3MTIwODI@._V1_

    Lebedinoe%2Bozero%2Bsnapshot
1107 replies since 11/8/2005
.